Benitez sì, Benitez no. Questo è il dilemma.

Si sta concludendo la stagione, tutti cercano di convincerci che questa sia stata una stagione fallimentare. E il nostro Capone prova a vedere i pro e i contro dello spagnolo
  • telegraph.co.uk

    di Alessio Capone

    Non credo occorra attendere l'esito della finale di Coppa Italia, per rispondere in un senso o nell'altro, sarebbe ingiusto, non equo e poco analitico; vorrebbe dire vincolare il giudizio di una stagione e l'operato di una persona al rincorrersi emozionante di quei minuti fino a contarne novanta, per poi alzare o abbassare il pollice a seconda del risultato finale, frutto di una partita secca. Certo, vincere quella partita sarebbe importante, vorrebbe dire chiudere il primo anno di un nuovo ciclo già con un trofeo in bacheca, in una piazza dove dire che non è cosa usuale è un eufemismo, vorrebbe dire avere la possibilità di aprire la prossima stagione giocandosene un altro. Sono uno di quelli che considera la Coppa Italia semplicemente un trofeo, non una "coppetta", né un contentino. Un trofeo. Un trofeo che non può, però,vincolare il giudizio di un'intera stagione. "La vittoria della Coppa Italia salverebbe una stagione altrimenti fallimentare", statene certi:sono proprio coloro che si abbandonano a frasi di questo tipo a considerare la Coppa di casa nostra una quisquiglia, se la si vince, oun fallimento clamoroso, in caso contrario. Giornalisti e opinionisti che mi ricordano tanto quella pubblicità anni '80 sull'AIDS: se li conosci, li eviti.

    Io dico: Benitez sì. Io sono un "rafaelita", sono uno di quelli che quando lesse il manifesto del rafaelitismo proposto e pubblicato da Il Napolista, lo abbracciò in toto, convinto della rivoluzione, quella "rafalution" tanto sbandierata dalla Gazzetta quando questi però stava a Liverpool e facilmente dimenticata dopo l'approdo a Napoli. E,ancor prima di riconoscermi in quel movimento tra filosofia e romanticismo, ero semplicemente un sostenitore di Benitez: da quel sogno di una notte di fine estate, da quel 28 agosto 2013, da quel Napoli - Bologna sensazionale. Da quell'esordio che mi godetti in solitudine, a casa mia, perché mio padre e mio fratello, i miei compagni azzurri, erano ancora al mare. "Papà, ma quando mai hai visto giocare il Napoli così?", gli chiesi per telefono a fine primo tempo. E lui mi rispose sì, senza se e senza ma. Non mi disse che c'era anche il Napoli di Maradona, quello di Krol o quello di Boskov. Quel Napoli di fine agosto era già pronto, aveva già un'idea di gioco, un'anima, si percepiva già chiaramente la mano dell'allenatore. Un uomo capace di gestire egregiamente gli uomini, di coccolare e bacchettare all'occorrenza chi ne ha avuto bisogno (Insigne capitano in casa contro la Lazio e criticato pubblicamente sette giorni dopo), un uomo perfetto nella scelta dei nuovi innesti ("Callejon può fare tra i dieci e i venti gol a stagione", dichiarò all'arrivo dell'ex madridista tra la sorpresa e il sarcasmo della stampa nostrana. Callejon è a diciotto segnature stagionali, oggi), un uomo che non ha mai urlato al miracolo (come eravamo invece abituati) dopo le vittorie contro Borussia, Arsenal e la recente Juventus, anzi, ci ha esortato a considerarle normalità, perché è l'unica via per fare quell'agognato salto di qualità che deve fare un ambiente intero dalle sue complessità. Ecco, la sua rivoluzione, rivolgersi ad un'intera collettività, responsabilizzarla, responsabilizzare ogni singolo tifoso, creare un'empatia con tutta la città, visitarla per capirla, ancor prima di apprezzarla. Certo, si poteva fare meglio, i punti di distacco dalle prime due della classe sono molti, ma occorre anche considerare i numerosi infortuni e la continua emergenza che abbiamo dovuto affrontare sulle fasce, quelle maledette e continue defezioni dei nostri terzini. Nel complesso è una stagione positiva, a parer mio.

    C'è solo un neo nella gestione della stagione che sta per concludersi di un allenatore che difendo a spada tratta, quel venire meno anche ad una parte del manifesto succitato: "Crediamo nella forza del contagio all’interno di una comunità. Crediamo nella forza sovversiva del pensiero, dell’analisi e del ragionamento, crediamo nel suo primato sul furore facinoroso dell’invettiva, contro l’agevole ricorso agli alibi per la spiegazione dei risultati insoddisfacenti...". Ecco, gli alibi. Quegli alibi sui fatturati giàcitati dopo la sonora sconfitta di Torino contro la Juventus e ripresi più avanti. In questo Benitez vorrei che non si ripetesse, lui, l'uomo che ci ha insegnato la sportività, la stretta di mano al'avversario anche dopo una sconfitta (con buona pace di molti degli allenatori nostrani che si dirigono dritti negli spogliatoi), non può perdersi in queste volgarità. Anche perché io tifo Napoli, lo so bene che non abbiamo lo stesso peso di altre società, non ho bisogno di sentirmelo dire. Lui dovrebbe essere esclusivamente un uomo di campo, davanti ai microfoni, dovrebbe farmi sentire il profumo dell'erba, dovrebbe ricordarmi di quando mi pulivo le scarpe dal fango sotto un getto di acqua gelida, di quando cambiavo le stringhe ormai marce da un paio di scarpe ancora utilizzabile, di quando correvo in un campo con le punte dei piedi gelate e la voglia del piatto caldo che mi aspettava a casa.
    I fatturati, i numeri, gli stipendi, li lasci ad altre sedi, si distingua anche in questo dalle volgarità che condiscono le partite. Il suo gioco mi ha entusiasmato, ma, a volte, il profumo dell'erba è venuto meno.

    Forza Napoli.  

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