Vi dico perché con Sarri “il maestro di calcio” non si va da nessuna parte

Gli scudetti si vincono con duttilità, cambi in corsa, capacità di utilizzare tutti gli uomini a disposizione e di colpire gli avversari nei punti deboli. Non con il culto per una formazione ideale immodificabile e la devozione per il bel gioco
  • di Antonio Esposito

    Qualche anno fa Giampiero Boniperti, in occasione dell’inaugurazione dello Stadium, riportò la celebre frase “vincere non è importante, è l’unica cosa che conta!”.

    Al di là degli aspetti dietrologici che gli “anti-Juve a vita” vedono in questa affermazione, e tra i quali, visti soprattutto gli ultimi 20 anni di Juve post avvocato Gianni Agnelli, non ho difficoltà ad inserirmi anch’io, questa affermazione mi fa riflettere molto, soprattutto dopo la giornata di campionato di ieri, 15 aprile 2018, nella quale la vecchia signora (volutamente in minuscolo, dopo che fino alla prima metà degli anni ’90 riportavo ancora in maiuscolo) ha, di fatto, messo la parola FINE al campionato.

    Non me ne vogliano gli irriducibili speranzosi ma l’unica possibilità che il Napoli aveva ancora per vincere lo scudetto era quella di andare a Torino il 22 aprile a non più di 3 punti di distacco e, soprattutto, vincere lì con due gol di scarto (visti gli scontri diretti determinanti). Facile prevedere che questa possibilità è oramai tramontata, poiché il Napoli farà anche risultato pieno nel turno di mercoledì sera ma, nonostante il compianto Tonino Guerra in un celebre spot di qualche anno fa affermava che “l’ottimismo è il profumo della vita”, appare davvero difficile prevedere una caduta dei bianconeri a Crotone.

    La stagione, per quel che mi riguarda, può dirsi già finita poiché la Juventus sabato prossimo avrà 2 risultati su 3 a disposizione; non è azzardato prevedere uno scialbo pareggio allo Stadium che, almeno formalmente, lascerà le due squadre a distanza inalterata ma che, di fatto, farà guadagnare un altro punticino ai campioni d’Italia in carica, in virtù del fatto che saranno definitivamente in vantaggio negli scontri diretti con il Napoli.

    Ecco perché è tempo di bilanci, per quello che ho visto tra campo ma, soprattutto, in panchina negli ultimi 3 anni, dove ho ammirato enormi tratti di gioco splendido ed un allenatore che praticamente tutta Europa ci ha invidiato (almeno a parole).

    Un dubbio, però, a me è sempre venuto: il nostro allenatore è stato definito da più parti un “maestro di calcio”, ma a questa mia amata squadra serviva davvero un “maestro di calcio” oppure un semplice “Allenatore” (volutamente con la A maiuscola)?

    Il buon Maurizio Sarri da Figline Valdarno arriva ad alti livelli in serie A solo nel 2015 (primo anno nel Napoli e non me ne vogliano gli empolesi) alla non più giovanissima età di 56 anni, ovvero un’età in cui molti grandi allenatori hanno già vinto di tutto e di più e, magari, iniziano ad avvertire i primi scampoli di una parabola discendente di carriera.

    Ecco la prima domanda che mi son sempre posto: come mai così tardi?

    Era mai possibile che in tutt’Italia non ci fosse un (dico uno) osservatore così attento da non accorgersi che c’era un “maestro di calcio” che girovagava per le serie inferiori e che, solo per una presunta scarsa diplomazia o per non saper lisciare i potenti di turno, non avesse ancora fatto il salto di qualità? Onestamente molto difficile da credere!

    Sacchi e l’equivoco dei “maestri di calcio”

    Sarri è stato accostato più volte ad un altro grande, o presunto tale, del passato come tale Arrigo Sacchi da Fusignano, “maestro di calcio” (ancora una volta questo termine) del primo (presunto) grande Milan di Berlusconi. A volte mi fermo a sorridere per come un evento, per quanto semplice o insignificante possa sembrare a prima vista, possa cambiare il corso della tua vita, soprattutto professionale; il giorno più importante che, secondo me, cambiò per sempre la vita professionale di Sacchi, risale ad un pomeriggio d’estate del 1987, quando dall’urna di Coppa Campioni (che bello quando si chiamava ancora così) uscì la maledetta accoppiata Real Madrid-Napoli al primo turno. Senza quel sorteggio, non me ne vogliano i milanisti in ascolto, ben difficilmente avremmo vissuto una delle giornate più brutte in assoluto come quella del 1° maggio ’88; praticamente con una preparazione atletica diversa, ed al di là di ciò che i complottisti “calcioscommessologi” affermano, il Milan quello scudetto non l’avrebbe mai vinto. Fu proprio quello, però, ad essere determinate poiché fu su quel tricolore che il Milan riuscì, di fatto, a vincere le due Coppe Campioni 1989 e 1990 (poiché all’epoca la vincente era qualificata di diritto per l’edizione successiva). Dopo quei trionfi, del cosiddetto Milan “sacchiano” praticamente non se ne seppe più nulla, anzi dopo un campionato assolutamente disastroso come quello del 90-91, il grande Marco Van Basten non tardò ad andare dal buon Silvio per affermargli testualmente “O lui o io”; Berlusconi ovviamente fece la scelta più ovvia e si sa poi com’è andata a finire…

    Tutto ciò per dire che personalmente dei cosiddetti “maestri di calcio” mi sono sempre fidato ben poco; per me il calcio è sempre stato sinomino di semplicità e, soprattutto, dell’estro dei campioni, dei fuoriclasse, di quelli che il terreno di gioco lo calcano per davvero, non di quelli che stanno nei pressi della panchina. Da che mondo è mondo gli scudetti, le coppe, i titoli in bacheca li porti a casa se hai i campioni che vanno in campo, non perché hai gli “stregoni” in panchina. Il “vate da Fusignano” ben difficilmente avrebbe vinto “quacche cosa” se non avesse avuto in campo 3 olandesi (!), soprattutto quando i suoi deliri di onnipotenza lo portarono ad affermare (testuali parole) che nel suo gioco “Angelo Colombo era più importante di Maradona”: cosa vuoi replicare ad uno così?…

    Ma dopo questa (fondamentale) digressione, torniamo ai giorni nostri.

    Quell’errore di Sarri allo Stadium nel febbraio 2016

    Non me ne vogliano i suoi estimatori ma credo che oggi Maurizio Sarri sia stato, purtroppo, uno dei principali colpevoli della perdita del 2° scudetto in tre anni.

    Altro piccolo passo indietro a questo punto, stavolta di soli due anni: 13 febbraio 2016. È di scena un Juventus-Napoli allo Stadium che, nonostante manchino ancora oltre 2 mesi alla fine del campionato, può essere determinante nella lotta finale per il titolo. Il Napoli ci arriva non solo con i favori del pronostico, ma anche con tutto il resto: ha ben 2 punti di vantaggio sui bianconeri e, soprattutto, è in vantaggio anche negli scontri diretti in virtù della vittoria a Napoli all’andata per 2-1. In altre parole il Napoli ha 2 risultati su 3 a disposizione, poiché anche il pareggio avrebbe virtualmente fatto lievitare il vantaggio a + 3 in virtù dei famigerati scontri diretti.

    Dopo un primo tempo e metà secondo tempo in cui gli azzurri dimostrano di essere superiori (del resto la Juve arrancò parecchio nella prima parte del campionato), quel vecchio filibustiere di Max Allegri capisce che le cose possono mettersi male (perde tra l’altro ad inizio ripresa anche Bonucci) e allora fa arretrare gradualmente il raggio d’azione della sua squadra; in altre parole capisce che è meglio andare negli spogliatoi con 2 punti (alias 3) di svantaggio, sicuramente più recuperabili di 5 punti (alias 6). Per dare comunque vigore all’attacco fa fuori Morata ma non per un centrocampista, bensì per Zaza, attaccante più di movimento rispetto allo spagnolo e che, soprattutto, con la sua maggior fisicità è in grado di sostenere la squadra alla ricerca di un pareggio a quel punto agognato.

    Cosa fa a questo punto il “vate da Figline Valdarno” ?

    Crede di poter vincere la partita ad occhi chiusi dimenticandosi che uscire con un pareggio da Torino gli avrebbe dato una bella fetta di scudetto: ecco che fa fuori un pimpante Insigne in favore di Mertens, esponendosi al contropiede juventino.

    Ironia della sorte, proprio da un pallone perso a metà campo dal belga nasce l’azione che porterà Zaza a segnare (con la complicità di una deviazione di Albiol) il gol che vale la partita ma, secondo me (e non solo secondo me), l’intero campionato 2015/2016.

    Un qualsiasi altro allenatore (e dico allenatore) che non sia vittima delle altrui definizioni che lo etichettano come “maestro di calcio”, avrebbe capito che era il caso di desistere e, magari, oltre a non togliere Insigne, di togliere uno spento Callejon in favore di un giocatore roccioso a centrocampo come il buon David Lopez il quale ben poco sapeva fare, ma quando si trattava di “far legna” a centrocampo non si tirava mai indietro; sarebbero stati creati tutti i presupposti per portarci a casa quel “punto d’oro” che, di fatto, ci avrebbe moralmente consegnato il tricolore, mentre invece sappiamo poi com’è andata a finire…

    E veniamo a questo campionato.

    Le riserve “messe in fuga” da Maurizio

    La squadra è praticamente la stessa del torneo precedente, con i soli acquisti di Ounas (preso per scaldare la panchina), Mario Rui (preso per avere un’alternativa a Ghoulam dopo che Strinic aveva chiaramente fatto sapere di non poterne più di fare panchina) ma, soprattutto Arek Milik, reduce praticamente da un anno di assenza ma che aveva fatto comunque vedere che la stoffa c’era.

    E si parte così, con la stessa formazione titolare dell’anno prima e con lo stesso modulo (4-3-3) che vede la sua punta di diamante nel “falso nueve” Mertens inventato da Sarri.

    Discorso panchina: in porta siamo quasi a posto (anche se la questione Reina non era stata gestita nel migliore dei modi), in difesa anche (dove, in realtà, si attendeva anche l’esplosione del “desaparecido” Maksimovic), a centrocampo ancor meglio, dove praticamente avevamo 6 giocatori (di pari livello) per tre maglie.

    Ma veniamo all’attacco: il cosiddetto “tridente” delle meraviglie non dava particolari preoccupazioni, ma alle spalle avevamo Giaccherini ed Ounas, che corazzieri non lo sono mai stati, con il solo Milik a fare da “ariete” d’area. Sul mercato, in realtà, son state fatte due sciocchezze, ovvero:

    1) l’aver lasciato partire Pavoletti, che era pur sempre un ottimo attaccante d’area;

    2) l’aver ceduto (cosa ancor più grave della prima) Duvan Zapata alla Sampdoria dopo che per due stagioni aveva retto praticamente sulle sue spalle l’attacco dell’Udinese.

    Anziché cedere, quindi, un superfluo (per l’economia del gioco) Giaccherini e tenersi Pavoletti per un altro anno, si va a prendere un inutile (per quello che si è visto) Ounas e si cede (molto a cuor leggero) il buon “Zapatone” che si era dimostrato uno dei più potenti attaccanti d’area dell’ultimo torneo fino a guadagnarsi (meritatamente) la maglia della sua nazionale. Ovviamente il diavolo “ci mette la coda” ben presto e perdi di fatto Milik per un’altra stagione trovandoti, praticamente, senza alternative in attacco. Ma perché è successo tutto ciò, forse per impreparazione della società? Sicuramente il taciturno Giuntoli ci ha messo del suo, ma anche il suddetto “maestro di calcio” non è stato da meno.

    Pavoletti un altro anno sarebbe anche rimasto, ma aveva orami capito che il campo lo avrebbe visto solo dalla tribuna; anche Zapatone a Napoli ci sarebbe anche ritornato, ma aveva capito che prima che Sarri lo giudicasse idoneo ai suoi schemi (Rog docet) sarebbe passato un intero campionato. Ecco che ti ritrovi con i due “piccoletti” che devono giocare per buona parte del torneo anche con una gamba sola, nonché con cyborg-Callejon che da quando è a Napoli ha saltato solamente 3 (dico tre) partite da titolare (!). Troppo poco per reggere la concorrenza di un attacco come quello dei diretti avversari che possono permettersi il lusso di perdere Dybala e Cuadrado per buona parte del torneo ma che hanno in panchina un certo Mandzukic, oltre che in campo, tra i titolari, l’ “innominabile” mister “90 milioni”!

    Il risultato è che dopo Carnevale inizi inevitabilmente a sgonfiarti; magari l’occasione per correre ai ripari c’era anche e si chiamava Roberto Inglese, ma da un lato la dirigenza clivense aveva capito che senza di lui sarebbe stata dura restare in serie A quest’anno, dall’altro l’ottimo attaccante di Lucera aveva subito capito che prima di entrare in quei “maledetti” schemi sarebbero passati almeno 3-4 mesi e avrebbe praticamente fatto la fine indecorosa di Pavoletti. E il bello è che non era possibile nemmeno dargli torto, visto che con questo mister Manolo Gabbiadini, preso a gennaio 3 anni fa, il campo prima di 2/3 mesi non l’avrebbe sicuramente visto.

    E così purtroppo non se n’è fatto nulla.

    Il risultato è sotto gli occhi di tutti (e veniamo all’ultimo mese): l’attacco praticamente non c’è più, i componenti dell’ex “trio delle meraviglie” non segnano da quel maledetto sabato 3 marzo contro la Roma (dove, secondo me, si è chiuso veramente il campionato del Napoli) e il Napoli in 5 giornate ti realizza solamente 4 gol di cui 1 segnato da un difensore (Albiol), due da “rincalzi di lusso” (Milik e Diawara) nonché un’autorete (perché nonostante ciò che i fantacalcisti affermano, contro il Sassuolo il gol non è di Callejon!). È da Inter-Napoli del 9 marzo che un qualsiasi altro ALLENATORE e non un “maestro di calcio” si sarebbe accorto che quei tre là davanti non ne avevano più, per cui a turno dovevano per forza rifiatare; e invece, vittima dei suoi totalitarismi, il suddetto prosegue spedito per la sua strada e li conferma sistematicamente in tutte la partite, nonostante dalla panchina il buon Arek scalpitasse, anche in vista di un Mondiale in cui la sua Polonia si candida ad un legittimo ruolo di outsider.

    Ma del resto anche a centrocampo si inizia a vedere che Allan e Jorginho perdono colpi, mentre in panchina hai due come Diawara e Rog che sono stati praticamente tenuti sotto naftalina per tutto il campionato e che invece, in quei rari momenti in cui sono stati “scongelati”. non hanno affatto sfigurato.

    Ecco che allora l’affermazione che da anni faccio secondo la quale Sarri è uno Zeman “riveduto e corretto” la confermo ancora una volta: qui ci troviamo di fronte a un ottimo “maestro di calcio”, che ti ha rivalutato gente come Mertens, Koulibaly, Allan, Ghoulam e chi ne ha più ne metta, ma che quando si tratta di saper “leggere la partita”, di adattarsi agli schemi dell’avversario, di saper gestire in maniera ottimale tutte, e dico tutte, le risorse umane a sua disposizione, ha mostrato evidenti limiti.

    I campionati non si vincono con i platonici “titoli d’inverno”: il Napoli, sotto questo punto di vista, è stato in grado di abbassare in maniera sensibile la percentuale delle squadre che, risultando prime dopo il girone di andata, vincano poi il titolo finale. Stando alle statistiche storiche, le probabilità che i campioni d’inverno vincano poi lo scudetto ammontano (o meglio ammontavano) a circa il 70%, ma se consideriamo le stagioni dal 2004-05 (cioè quelle con la Serie A a 20 squadre e i 3 punti a vittoria), le probabilità salgono addirittura quasi al 100%. Il Napoli è stato in grado di andare contro questa statistica per ben 2 volte in soli 3 anni (!), praticamente un record.

    Le ragioni di ciò? Sono già tutte sopra riportate…

    Gli scudetti si vincono non innamorandosi perdutamente del proprio modulo di gioco, dei suoi (presunti) insostituibili interpreti, della ricerca del bel gioco e del possesso palla a tutti i costi; i campionati, oltre che con un inevitabile peso politico in Federazione, si vincono con la duttilità, con il ricambio mirato degli uomini, con l’esibizione di un sano “catenaccio” quando questo è necessario, con la palla spedita in tribuna (sempre quando è necessario), con la scoperta e lo sfruttamento sistematico dei punti deboli del tuo avversario nonché con quella dose di sana “cazzimma” che proprio noi partenopei abbiamo esportato praticamente in tutto il mondo.

    Ecco perché, e non me ne voglia il nostro “maestro di calcio”, raramente i “professori” (o presunti tali) e i “rivoluzionari” hanno vinto “quacche cosa”: dei vari Scoglio, Maifredi, Orrico, Buso, difficilmente qualcuno, oltre gli almanacchi, si ricorderà tra qualche decennio; ma del resto anche la disamina della bacheca del “maestro” Zeman porta ad uno sconfortante “zeru tituli”.

    Il solo Sacchi, in questo ipotetico “circolo esclusivo”, rappresenta un’eccezione, ma abbiamo visto sopra dovuta a quale “evento” in particolare.

    Per cui, caro il nostro Presidente ADL, sono fermamente convinto che il Napoli non abbia bisogno né di maestri né di professori; la squadra azzurra ha bisogno di un ALLENATORE, ovvero (in alternativa):

    a) di uno come Benitez (soprattutto quello del 1° anno) in grado di attrarre col suo nome calciatori di calibro internazionale come Higuain, Albiol, Mertens, Callejon e di vincerti 2 titoli;

    b) di uno dello stampo di Mazzarri, in grado di “friggerti il pesce con l’acqua”, alias di arrivare a sfiorare i quarti di Champions (e vincerti una Coppa Italia) con Aronica, Grava, Pazienza, Mascara e Yebda (senza assolutamente voler offendere nessuno di loro, sopratutto se ciascuno di essi ha sputato sangue e sudore per la maglia azzurra).

    Posso permettermi di fare un nome (anzi due) per la prossima stagione?

    Non ho mai amato le “minestre riscaldate”, ma un ritorno di Marcello Lippi come direttore tecnico affiancato magari da un Giampiero Gasperini in panchina non mi dispiacerebbero affatto.

    Ai posteri l’ardua sentenza…

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