Ciro vive. Ma Roma muore

A proposito degli orribili striscioni apparsi in curva Sud...
  • di Boris Sollazzo

    Boris Sollazzo

    Sono romano. Di origini napoletane. Sono romano e tifoso del Napoli. Fino a qualche mese fa amavo entrambe le città del mio cuore: quella in cui abito e mi ha visto nascere, quella che ho dentro da sempre: nei miei geni, nei miei ricordi, nel mio orgoglio.

    Poi, il 3 maggio, è successa una tragedia. E io ho pensato “non facciamo di tutta un’erba un fascio”. Conoscevo la mia città, sapevo che era violenta, a volte, ma civile. Ero in Messico, con un emigrante romano e giallorosso, che soffriva con me per quelle immagini. Entrambi figli di una Roma che ha tanti problemi, ma sapeva essere grande. Volevo dirlo a tutti, per questa mia doppia provenienza e per convinzione: non ha ucciso la città, ma uno dei suoi peggiori cittadini.
    Ma è Roma che è stata uccisa, e non quel giorno, colpita a morte dal proiettile che ha trapassato Ciro Esposito. No. Roma ha cominciato a essere indegna del suo nome e della sua storia dal giorno dopo. Da quando un sindaco non si è mai preoccupato di andare in ospedale a trovare l’uomo che stava pagando per la sua incompetenza. Se non troppo tardi. Da quando i massimi vertici delle forze dell’ordine, prefetto su tutti, pensavano a pronunciare dichiarazioni allarmiste su eventuali vendette partenopee, dopo aver lasciato la propria città in balìa della follia di pochi, dimostrando inadeguatezza totale al compito affidatogli. Da quando una società di calcio ha preferito ignorare lo spettacolo indecoroso delle manifestazioni di solidarietà a un omicida, tramite striscioni e cori, appena sei giorni dopo l’agguato. Da quando una comunità intera, quella capitolina, ha risposto a quella barbarie con scritte sui muri contro la vittima o sua madre. Senza dissociarsi, senza dichiarare estraneità e ribrezzo. Coprendo tutto con un muto consenso.

    Forse voi che leggete vi stupite, guardando ora quei teli bianchi vergati con parole vergognose. “Che cosa triste... lucri sul funerale con libri e interviste!”. Diretto ad Antonella Leardi questo haiku in rima, per aver fatto un libro a scopi benefici “per non dimenticare”. Alla presentazione, che lei ha voluto all’Olimpico, pochi giorni prima di Roma-Napoli, non c’era l’As Roma. Non c’era il sindaco Marino, né nessuno della sua giunta. Non c’era neanche un componente delle curve giallorosse. Un ramoscello d’ulivo, in un momento di tensione, ignorato. Eppure lo porgeva chi più soffre per la morte di Ciro.
    “Parli d’infamità ma l’arte di pentirsi nasce nella tua città”. Qui, che dire, si fa fatica a capire cosa sia più stupido: l’attacco alla madre o a chi collabora con la giustizia. “Antonella taci” invece compare nel secondo tempo. Per chi non avesse capito, peraltro, tutti gli striscioni che sostenevano “Danielino”. E non si parlava, certo, di De Rossi. Certo, anche a Napoli comparvero parole indegne, nella partita d’andata. “Ogni parola è vana... Se occasione ci sarà non avremo pietà”. Così minacciava una delle curve azzurre. Il dolore di una perdita che diventa follia e torto. Ma il San Paolo reagì con forza, come non ha fatto l’Olimpico. E neanche i giocatori in campo – anche quelli azzurri, intendiamoci – che avrebbero dovuto lasciare il campo. Non parliamo di Rizzoli, l’arbitro: uno che non vede le aggressioni in campo, figuriamoci se riesce a leggere quelle frasi vergognose. Uno che non sa decidere dopo un pugno in faccia, potrà mai essere così coraggioso da mettersi contro decine di migliaia di persone?

    Non c’è codice che tenga di fronte a certe parole. Non quello penale, non quello sportivo, neanche quello ultras. Il primo proverà ad accarezzare con sanzioni ridicole i colpevoli, semmai verranno individuati. Il secondo, se Tavecchio come prima cosa non avesse devitalizzato la norma sulla discriminazione territoriale,  avrebbe potuto portare a una squalifica. Per una giornata, al massimo, quando servirebbero un paio d’anni probabilmente. Il terzo, che ha regole proprie, incomprensibili e non di rado contrarie al vivere civile (lo striscione della curva napoletana è perfettamente comprensibile nel linguaggio ultras, ma assolutamente inaccettabile per tutti gli altri), non prevede il vergognoso linciaggio morale di una madre. E’ schifoso, vile, infame prendere di mira una donna la cui unica colpa è stata accettare con dignità e alto profilo morale, chiedendo sempre pace e riconciliazione, la tragedia più grande che un uomo possa immaginare: sopravvivere al proprio figlio. Anzi, fanno di peggio, strumentalizzano una madre per insultarne un’altra. “C’è chi piange un figlio con dolore e moralità e chi ne fa un business senza dignità. Signora De Falchi (madre di Antonio, 19enne tifoso giallorosso ucciso in occasione di un Milan-Roma) onore a te”. Come se l’eventuale business (che non c’è, peraltro) giustificasse una pistola fumante e un 29enne morto dopo più di 50 giorni di agonia. Viene da fare una battuta: a Napoli di Gomorra ci si vergogna, a Roma di Romanzo Criminale si fa un vanto. Sarà tutto qui il punto.
    Roma è colpevole tutta, perché non ha saputo mai, in ormai 11 mesi, prendere le distanze da migliaia di persone che la infamano con il loro comportamento. Roma, di solito accogliente e persino materna, si è trasformata in una città rancorosa e razzista. Perché la verità è che per tutti gli ignavi che ora non sono in piazza a protestare, così come per quelli che all’Olimpico non hanno lasciato gli spalti, né si sono prodotti in fischi assordanti, pretendendo la rimozione degli striscioni (al San Paolo avvenne), vivono nella convinzione che il “napoletano” sia ontologicamente portato alla criminalità e che una vittima proveniente dalla Campania, o dal Sud, meriti di morire, in fondo, per una sorta di inferiorità morale e antropologica.
    Questa è l’Italia, oggi. Un paese pieno di odio, ben rappresentato da una città incapace di capire in che tunnel si stia infilando. Perché, citando Brecht, ce la si può anche prendere con zingari, napoletani, immigrati a Tor Sapienza. Ma a un certo punto non rimarrà più nessuno. E porteranno via chi si sentiva superiore e giustificava assassini e vergognose solidarietà.

    Lo sport è qualcosa di straordinario. Ma lo stiamo uccidendo. E a quel qualcuno che, da queste righe, immaginava di dover leggere parole distensive, chiedo scusa. Gli offro quelle di Antonella Leardi. “Pregherò per loro, perché possa cambiare i loro cuori”. Lei ha la forza di invocare Dio. Io, convinto che sia morto da tempo, ucciso dal nostro squallore, invoco la reazione di una città, di una comunità, di un paese. Un tempo dittature atroci compirono ignominie perché c’era sempre qualcuno a giustificare il razzismo, la violenza, la discriminazione. Siamo a un punto di non ritorno. Giustificare, prendere parte, relativizzare, ora, potrebbe portarci in un abisso. Ribelliamoci.
    Lo faccia anche Napoli e il Napoli, magari rifiutandosi di giocare il resto del campionato. Qui non ci sono in ballo tre punti, una coppa, i soldi della Champions League. Qui c’è in ballo il futuro di uno sport, di una società, di una città. 

    tratto da "Il Garantista"

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