Edy Reja, il Mister

In vista di Napoli-Lazio riproponiamo da “#chevisietepersi” l’intervista all’allenatore goriziano: un grande del nostro calcio con il cuore sospeso tra il biancoceleste di oggi e l’azzurro dei suoi anni partenopei
  • di Boris Sollazzo

    Cinque anni. Dal 2005 al 2009. La rinascita della nostra squadra del cuore passa per quest'uomo dai lineamenti ruvidi e antichi, maturo cowboy dagli occhi di ghiaccio, goriziano con cui condivido le radici slovene. Edoardo Reja, detto Edy, si è fatto carico della resurrezione partenopea e per noi, che abbiamo sofferto con lui, è l'allenatore per eccellenza. Solo per noi ha esultato, a Genova, inusualmente scomposto, solo per noi ha pianto. E il suo cuore è rimasto azzurro, senza farsi corrompere da sfumate di nero com'è successo ad altri. Al massimo ci ha messo una pennellata di bianco. Ma senza dimenticarci mai. E neanche noi lo abbiamo fatto.

    Un uomo del profondo Nord come lei si è “napoletanizzato” in maniera straordinaria. Ci racconta questo rapporto speciale?

    Non deve sembrare così strana l’intesa che si è creata tra me e il pubblico partenopeo. Perché al friulano, forse, serve più tempo per avere confidenza con chi ha di fronte, ma poi si apre proprio come fa il napoletano. Da noi c’è lo stesso tipo di umanità, anche se siamo più timidi nell’esprimere sentimenti e opinioni, non siamo immediati come sul Golfo a dire ciò che pensiamo e proviamo. Ma se uno delle mie parti impara a conoscerti, poi diventa molto caldo. E anche a noi piace stare con la gente e apprezziamo i piaceri della vita.

    Non c'è nulla come Napoli e il Napoli. L'ha detto più di una volta.

    La forza, il calore che ti danno i napoletani sono incomparabili con qualsiasi altra realtà. Nessuno può arrivare alle emozioni che ti dà lo stadio San Paolo: facevamo 60.000-70.000 spettatori anche in C e in B, si tratta di un amore sconfinato e straordinario che ti investe e travolge. E parliamo soprattutto di un pubblico pieno di passione ma anche di competenza, sia pur fortemente critico. Ma è normale: quando c’è un sentimento così forte nei periodi negativi i tifosi si fanno sentire. Sono molto esigenti, giustamente.

    Il giorno più bello?

    Il 10 giugno del 2007 lo ricordo tuttora come l’apice di gioia della mia avventura napoletana. Quel pomeriggio ci siamo liberati da un incubo: dalla C in cui venivamo insultati ovunque, e in particolare se la prendevano con me, dalle trasferte difficilissime di Gela e Acireale, dalla B che era comunque un palcoscenico che questa squadra non meritava. Ma io sapevo che ce l'avremmo fatta: quando Pierpaolo Marino mi chiamò io non sentii mai il peso del declassamento, della discesa di categoria. Io non andavo in C, andavo al Napoli. Avevo portato in serie A il Cagliari pochi mesi prima, ma per me era comunque un salto di qualità andare sotto il Vesuvio.
    Una piazza così importante la accetti qualsiasi sia la categoria in cui milita.

    Possiamo dire che lei ormai è un tifoso del Napoli?

    Sono un tifoso, certo che si può dire. Anzi, si deve. Cerco di seguirlo sempre, sulla mia poltrona mi entusiasmo quando le cose vanno bene, soffro se vanno male. Non posso dimenticare cinque anni così belli, l’affetto di tutto un popolo, squadra e città mi sono rimasti nel cuore. Poi fino a poco tempo fa l’ossatura della squadra era la mia, e ancora oggi ci sono Hamsik, Maggio, Paolo Cannavaro, Gianluca Grava che c’erano anche con me.

    Le piacerebbe tornare?

    Aurelio De Laurentiis mi ha sempre espresso affetto e stima, ha sempre speso parole meravigliose per me. E mi vorrebbe di nuovo a Napoli, ma io ancora per un paio d’anni vorrei allenare, magari un’altra sua squadra, per portare il nome glorioso del Napoli all’estero. Poi chiaro che c’è il mal di Napoli come c’è il mal d’Africa: mi manca, ma prima o poi sarò di nuovo là, in un altro ruolo. Per ora, però, giro ancora un po’.

    Il suo luogo del cuore sul Golfo?

    Sono tanti, ma ricordo ancora con piacere la Fattoria del Campiglione, a Pozzuoli: con lo staff andavamo da Nicola fin dalla serie C. Iniziò tutto per caso, poi la domenica seguente vincemmo. E per scaramanzia tornammo. Era il rifugio in cui andavamo dopo le vittorie a festeggiare e dove cominciavamo a preparare le partite ogni giovedì. Divenne una meta obbligatoria: lì sentivo quell’atmosfera familiare speciale che trovi solo in una città come questa.

    Cosa non dimenticherà mai dei tifosi partenopei?

    L’accoglienza che mi tributarono al mio ritorno al San Paolo, con la Lazio. Fu qualcosa di pazzesco. Mi chiamarono sotto gli spalti: tribuna, distinti, curve. Mi regalarono dei fiori, erano tutti in piedi ad applaudirmi. Tutti. Era la prima volta che tornavo. Fu commovente, qualcosa che ricorderò per tutta la vita. Una dimostrazione d’amore così grande non me la sarei mai aspettata, fu straordinario, troppo bello ed emozionante. Tu lo sai Boris, sono abbastanza duretto io, ma quel giorno ti confesso che potrebbero essermi scese due lacrime (sorride, con quel viso antico e lo sguardo giovane e allegro, confessa quella che forse considera una fragilità, ma che invece lo rende ancora più grande). Anzi, credo proprio sia successo. E temo fossero più di due.

    *Edy Reja ha una pagina Wikipedia tradotta in 11 lingue, napoletano compreso. Da giocatore si legò alla Spal, dove giocò con Fabio Capello, suo grande amico, e al Palermo. Come allenatore fece bene a Cosenza, Pescara e Torino, ottenne una promozione a Brescia, Vicenza e Cagliari. Ha portato il Napoli dalla C all'Uefa, sfiorando in seguito, per due volte, la Champions con la Lazio.
    É l'uomo più rappresentativo dell'era De Laurentiis, il Mister per eccellenza. “Con quella faccia da straniero, sembro soltanto un uomo vero” avrebbe cantato per lui Georges Moustaki.

    Estratto da #chevisietepersi di Boris Sollazzo (ed. Fandango), per ordinarlo su Amazon clicca qui

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