Auguri Capitano: da #Chevisietepersi l’omaggio a Bruscolotti

Festeggiamo il 63esimo compleanno del grande Palo ’e fierro riproponendovi l’intervista pubblicata dal nostro Boris Sollazzo nel suo Manuale di chi tifa Napoli: “L’azzurro è la mia vita”

Giuseppe Bruscolotti – l’idolo

di Boris Sollazzo

Trema la voce a parlare con lui. Palo ‘e fierro è il Napoli, ne è il simbolo calcistico e l’orgoglio. Corretto e invalicabile, anche fisicamente, ha dedicato la carriera alla nostra maglia. Nonostante la corte serrata di un Barone e le ingiustizie subite solo perché è rimasto al Sud. Bruscolotti è il Napoli, ma anche lo sport: ha aperto una scuola calcio con Maradona, poi portata avanti da solo, in cui essere campioni vuol dire togliersi dalla strada e rispettare e rivendicare i valori della legalità. Un grande calciatore, un grande uomo. Un manuale come questo non può fare a meno di raccontarlo: con le sue parole, mentre è nel suo ristorante. Il nome? 10 maggio 1987, ovviamente, la data del primo tricolore.

Cos’è il Napoli per te?

Il Napoli è stato, è la mia vita. Quarant’anni in azzurro sono tanti, e sono tifoso da sempre. Qui al ristorante seguiamo sempre le partite. Una passione, un amore coronato da gioie straordinarie: la fascia da capitano ereditata da Juliano, il primo scudetto. Con la prima capii di far parte, a tutti gli effetti, di una grande famiglia fatta soprattutto dai tifosi unici che abbiamo. La fascia la passai a Diego Armando Maradona con un gesto spontaneo ma allo stesso tempo pensato: sapevo cosa significasse indossarla, quanto rispetto meritasse e quanto orgoglio suscitasse, e ho capito che poteva aiutarlo a sentirsi ancora più responsabilizzato e… napoletano. Solo lui poteva condurci alla vittoria. Io ero alla fine della carriera, dovevo fare quel gesto. Eravamo molto amici, tra noi c’è sempre stato un rapporto forte, limpido, chiaro.

Perché, secondo te, il tifo napoletano è unico al mondo?

Può capirlo, credo, solo chi ha giocato al San Paolo, chi ha vissuto la passionalità e l’inventiva dei tifosi nel sostenere la squadra e nel festeggiare le vittorie, solo chi ha visto le coreografie meravigliose delle nostre curve – penso a quella, recente, del Vesuvio contro le stronzate razziste dei supporter juventini –, può saperlo solo chi ha sentito la poesia dei loro cori.
Non c’è paragone con il resto d’Italia e del mondo, semplicemente.

Quali sono stati i momenti più emozionanti della tua avventura napoletana?

Mi porto tanti momenti dentro: il mio gol contro l’Anderlecht in semifinale di Coppa delle Coppe, il leggendario Juventus-Napoli 1-3 del 1986. E i miei gol: undici in più di 500 parite. Il ricordo del boato del nostro stadio dopo aver messo la palla in rete è qualcosa che mi emoziona ancora adesso. La mia fortuna, poi, è che l’amore della folla l’ho sempre sentito, a pelle. Non mi sono mai tirato indietro, nei momenti più difficili ci ho sempre messo la faccia, andando a confrontarmi con i tifosi. E l’ho fatto anche quando ho smesso: ai tempi di Salvatore Naldi calmai gli animi in una settimana, incontrando tutti i gruppi: c’è sempre stato tanto rispetto reciproco. Gli ultras hanno sempre saputo che ho dato il massimo per la maglia, la squadra e la società, e io ho sempre saputo lo stesso di loro. E queste vale ancora, dopo tanti anni, è un sentimento sempre vivo. Per questo mi fa male vedere ridotto così male l’impianto di Fuorigrotta: tifosi così straordinari meriterebbero un palcoscenico adeguato.

C’è un erede di Bruscolotti?

No, il concetto di bandiera ormai è superato. Ma ammetto che Marek Hamsik, uno straniero così attaccato alla città, mi colpisce molto per il talento e la voglia di fare la storia qui da noi, rinunciando ad ascoltare le sirene di altre squadre. Lui è la dimostrazione che questa città la devi vivere, conoscere e non puoi soffermarti ad ascoltare i pregiudizi di chi la vede dall’esterno, di chi ne dà un’immagine pessima e falsata. Napoli non è solo il degrado e la criminalità, è soprattutto molto altro.

Di quegli anni quali sono i compagni che ricordi con più affetto?

Tantissimi. Ma ora mi vengono in mente Bruno Giordano e Moreno Ferrario, con cui sono rimasto molto amico. Non sono nati qui ma ancora oggi, a più di un quarto di secolo dalla fine della loro esperienza napoletana, parlano con la luce negli occhi di quel periodo e della città.

Palo di ferro ti chiamavano. Gli avversari sbattevano contro di te, tu non crollavi mai. Ti piaceva quel soprannome?

Il soprannome Palo ‘e fierro mi ha sempre reso orgoglioso: manifestava perfettamente cos’ero, la mia durezza nel gioco. Ero corretto ma coriaceo, un combattente che cercava di non cadere mai.

Chi decide di promettere amore eterno a Napoli e al Napoli che prezzo deve pagare?

Chi prende questa decisione deve sapere che pagherà il privilegio di essere nel posto più bello con i tifosi migliori. Nel mio caso penso alla Nazionale: se io avessi giocato altrove avrei avuto molte più opportunità in azzurro. A Spagna ’82 sembravo essere riuscito a entrare nel gruppo, poi a tre giorni dalla partenza chiamarono Bergomi, dall’Inter. Aveva solo 18 anni. C’erano i blocchi del Nord: io avevo esperienza ed ero ben considerato da grandi allenatori come Nils Liedholm. Tutte le squadre più forti mi avevano cercato durante la mia carriera, tranne la Juventus. Ma Bearzot scelse comunque lui.

C’è stato un momento in cui hai temuto di dover lasciare il Golfo?

Una volta fui molto vicino alla Roma, il presidente Ferlaino mi aveva praticamente ceduto – e allora non si poteva che obbedire, il calciatore era in tutto e per tutto proprietà della società, non aveva possibilità di decidere –, persino Vinicio me lo fece capire. Poi sfumò tutto per un mio infortunio lieve. La Roma di lì a poco avrebbe vinto lo scudetto. In ogni caso sarebbe stato difficilissimo andarsene, ero e sono troppo legato alla città e alla squadra. Poi arrivò Maradona, e il “sacrificio” diventò una scommessa meravigliosa. Che si chiuse con lo scudetto. Un sogno.

Noi tifosi siamo il dodicesimo uomo in campo?

Altroché. Allora vincemmo anche e forse soprattutto grazie al tifo: bastava un coro, cantato da tutto lo stadio, per darci la carica, per ridarci le forze. Anche se dedicato a un compagno e non a te. Poi quando si alzavano le note di ‘O surdato ‘nnamurato, ti esplodeva il cuore. Quei secondi erano incredibili.

*Giuseppe Bruscolotti è il Capitano: difensore roccioso, simbolo della napoletanità calcistica e non solo. Doveva essere campione del mondo, è stato campione d’Italia (dopo aver vinto due coppe Italia e una coppa italo-inglese). Nessuno ha giocato nel Napoli quanto lui: 511 presenze, in 16 anni. Nessuno ha vestito più di lui quella maglia in serie A (387), nessuno nelle coppe nazionali (96). La bandiera per eccellenza, insomma.

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