17 maggio dell’89, trent’anni fa l’opera d’arte di Stoccarda-Napoli, la notte della Coppa Uefa

Careca si inginocchiò, scosse le mani davanti al viso e dopo il gol si chiese: “Ma come facciamo a essere così forti?”. Finì 3-3 e alzammo il trofeo delle lacrime di Ciro, le corse inarrestabili di Alemao e gli infiniti lampi di Diego
  • di Errico Novi

    La scena è indescrivibile. Non si capisce se prima non spiego l’antefatto. Mio fratello Vittorio mi fece scoprire, qualche anno fa, un dettaglio pazzesco del gol di Careca a Stoccarda, il terzo della finale, il 3-1 che chiuse la storia. L’avevo già vista 700 volte, quella sequenza, ma mi ero sempre soffermato su un altro paio di lampi. Mi sfuggivano sempre quelle mani sul volto di Antonio de Oliveira Filho per sempre Careca. Sul passaggio di Diego lui si allunga il pallone un millimetro di troppo. Finisce quasi addosso al portiere. Con un balzo miracoloso arriva prima dell’estremo difensore tedesco e dà un inspiegabile colpo sotto. Vede la palla in fondo al sacco. Si inginocchia e mentre aspetta Diego che corre ad abbracciarlo si mette le mani sul viso e poi le agita insieme, come a chiedersi “ma com’è possibile, come ho fatto?”.

    Ecco, io a questo dettaglio non pensavo mai e fu Vittorio a dirmelo: “Ma tu ti rendi conto che quello dopo il gol s’inginocchia ed è come se dicesse 'ua’, ma c’agg fatt?!?'”. Quando lo racconta, Vittorio ride e un po’ piange, gli si fanno gli occhi lucidi. Anche a me certo. Ed è con questa scena negli occhi che quattro anni fa ho l’onore di poter rivolgere una domanda ad Antonio Careca. Lui è a Pompei per presentare il libro di Giampaolo Materazzo e Dario Sarnataro. Radio Kiss e il centro commerciale La cartiera organizzano una serata evento aperta al pubblico, cioè a una folla di pazzi. Il palco è in un’enorme piazza coperta. Il conduttore dello show consente, ad  alcuni dei giornalisti accalcati davanti, di fare domande. Io sono andato lì non tanto come cronista ma per cantare “Ue’ Care’ Care’ tira la bomba”. Però la scena vista con Vittorio mi torna di continuo e non resisto, esigo il microfono e chiedo a Careca: “...c’è quella scena incredibile, tu dopo il gol ti inginocchi e unisci le mani davanti a te: ma cos’hai pensato in quel momento? 'Ma come facciano a essere così forti'? Questo hai pensato?”. Silenzio. Il conduttore neppure voleva darmi la parola. Antonio Careca sorride, poi mi risponde: “Sai, io avevo avuto la febbre a 40 fino a poche ore prima. Non avevo chiuso occhio ed ero convinto che non ce l’avrei mai fatta a scendere in campo. Segnai quel gol dopo una corsa di 40 metri. Quanto vidi la palla dentro pensai 'ma come ho fatto con 40 di febbre? '…”.

    E io come faccio a spiegare che l’idolo di quella scena me lo sono trovato davanti e lui mi ha spiegato cos’ha provato 26 anni prima, quella notte benedetta del 17 maggio 1989, lui in campo mentre io lo guardavo in eurovisione e tremavo per la felicità e il terrore che il sogno svanisse? Come si fa a spiegare che l’immagine scolpita nella mia memoria per il resto dei miei giorni mi è stata raccontata dal genio che le ha dato vita? Com’è possibile trovarsi davanti al sogno che improvvisamente si materializza e prende il microfono per risponderti?

    Stoccarda-Napoli. Trent’anni esatti. Quella notte di maggio io ne avevo 18, di anni, compiuti da poco. Chi come me ha avuto la grazia di vivere quel tempo magico in piena adolescenza sa che può affrontare tutto. Aver vissuto una gioia così coinvolgente lunga sette anni nel pieno della spensieratezza più assoluta è un dono che non si cancella più. Quella notte, poi, è la verità che si manifesta. Sì, innanzitutto Careca che si chiede come si può essere così forti, così invincibili da trasformare una finale di Coppa Uefa in un’opera d’arte con 40 di febbre addosso. E non  solo. Il primo gol, vogliamo dirlo? Alemao che aveva sconfitto indicibili difficoltà, epatite compresa, e che segnò il suo gol perfetto, una cavalcata di forza, rabbia e furore indomito, la palla che va fuori poi gira su se stessa e torna dentro la porta.

    E poi Ciro. Quel gol pazzesco, il colpo di genio di Diego che si ritrova addosso la ribattuta del calcio d’angolo e ha lo stesso lampo che aveva avuto pochi mesi prima contro il Milan, quando si trovò Galli davanti sulla trequarti, con il fuorigioco di Sacchi lasciato verso la linea di centrocampo, e lo superò con un colpo di testa a pallonetto lungo trentacinque metri. Su quella ribattuta dopo il calcio d’angolo fece la stessa cosa. Chiunque avrebbe stoppato e crossato di nuovo, lui la rimise in  mezzo di testa senza farla andare a terra. Ciro Ferrara spuntò dal nulla e la colpì al volo in diagonale di mezzo collo, da pochi passi con un tempismo che aveva avuto solo Paolo Rossi nel 3-2 contro il Brasile al Sarrià. Due a uno e Bruno Pizzul disse: “…e vedete Ferrara che non crede ai suoi occhi… e ora con una smorfia di gioia e commozione va a rifugiarsi nell’abbraccio dei compagni”.

    Lo avrebbero chiamato traditore. Perché Ferlaino, disperato e senza una lira, l’aveva venduto alla Juve e lui non s’era incatenato davanti ai cancelli di Soccavo per impedire lo scempio. Come se fosse dipeso da lui. Lo chiamarono traditore ma avrebbero dovuto riguardarsi un po’ più di volte quella scena al vhs. Avrebbero dovuto piangere come me. E quella bestialità non avrebbero mai osato sussurrarla.

    Fu la notte della verità, quello Stoccarda Napoli 3-3 del 17 maggio 1989 che ci incoronò vincitori della Coppa Uefa. Le mani sul viso di Antonio Careca, la corsa indomabile di Alemao. E il pianto a dirotto di Ciro sotto l’abbraccio di Diego: “Non sa trattenere le lacrime…”, disse Pizzul. Lui friulano l’aveva capito. Qualcuno dei nostri, anni dopo, finse di non aver capito.

    A fine partita Ciro pianse di nuovo, e di nuovo tra le braccia di Diego, inginocchiati tutti e due in mezzo al campo, con la Coppa vinta e le lacrime che non si fermarono. Diego lo prese come un fratellino minore. Alzò la testa e disse ai fotografi: “Ciruzzo è napoletano, lui se lo merita più di tutti, noi abbiamo fatto qualcosa ma lui ha fatto gol, ha fatto una grande partita, lui se lo merita più di tutti”. Attorno il nostro popolo cantava oj vita mia. Si era inscritta nella storia, per sempre, la verità. E cioè che eravamo forti.

    Ma come facevamo a essere così forti?

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