Diario da Villareal, giorno I: Marcelino, i bambini a caccia di autografi e un simpatico vecchietto

  • di Antonio Moschella

    La sveglia suona alle 6.30 di martedì 16 febbraio. Il treno per Castellón de la Plana, a pochi km da Vila-real, è alle 8, ma meglio controllare di avere tutto. Decido di percorrere i 4 km che separano casa mia dalla stazione di Barcellona Sants in bici, tanto per dare alla giornata quella scossa adrenalinica iniziale per mettersi subito a lavoro. Le due ore di treno passano fulminee, tra la raccolta di dati sul Villareal e il suo allenatore Marcelino, che avrei intervistato di lì a poco.

    Vila-real sta a Castellón, capoluogo di provincia, come Pozzuoli sta a Napoli. Indi per cui, una volta sceso dal treno devo prenderne un altro, che mi lascia a 2,5 dal centro sportivo del rivale del Napoli questo giovedì. Un borsone con il minimo indispensabile per i tre giorni di trasferta non è un peso spaventoso per uno che ha realizzato il Cammino di Santiago, quindi gambe in spalla e via a piedi, con un vento gelido per fortuna contrastato da un sole vigoroso.

    Assistere a un allenamento intero di una squadra di primo livello è oggigiorno un lusso. Intorno a me la maggior parte sono pensionati i cui pensieri vanno vuoi a qualche giocatore festaiolo, vuoi al Napoli, vuoi all’allenatore che avrebbe dovuto schierare Tizio al posto di Caio. Marcelino sembra stupefatto quando gli ricordo dell’intervista, della quale non era al corrente, ma per fortuna dopo quindici minuti eccolo apparire in sala stampa. Sono ormai le 13 e 15 e cerco un qualsiasi posto per poter buttar giù l’intervista, ma al centro sportivo del Villareal il Media Center non esiste, o meglio essendoci solamente io non ne è stato previsto l’uso.

    Tocca dunque tornare in centro e cercare un qualsiasi bar dove poter mangiare e al contempo connettersi al Wi-Fi. Prima, però, all’uscire dal centro sportivo, vengo assalito da un’orda di bambini che, in maniera del tutto innocente, mi si avvicinano chiedendomi se sono un calciatore, cercando un autografo. Ad alcuni rispondo di no, ad altri che mi sono ormai ritirato e alla fine, dopo l’ultima richiesta di autografo, rispondo con un sommesso “magari”.

    Una volta trovato un ristorante nel quale passerò le seguenti tre ore, scelgo il menù e lascio scorrere lentamente il tempo, consapevole di dover mettermi a scrivere subito dopo mangiato, qualcosa che odio. Mentre mi servono un decente caffè - per la Spagna va più che bene - vedo che il mio pc ha solamente due ore di autonomia. L’intervista a Marcelino va via liscia come l’olio, ma sul più bello, quando credevo di aver già concluso la mia giornata lavorativa, mi viene chiesto anche un pezzo su Victor Ruiz, con il quale avevo scambiato due chiacchiere off the record. i 40 minuti di batteria restanti sono stimolanti ma al contemplo  una bomba a orologeria. Appena inviato il secondo - e fortunatamente ultimo - pezzo, ecco che lentamente il mio pc sviene, bisognoso di una presa di corrente che ovviamente non c’era.

    Sono ormai le 16 e 30 e penso di levare le punte da quel ristorante dove, per il prezzo pagato, mi avevano trattato anche troppo bene. Direzione El Madrigal, lo stadio, per odorare un po’ l’ambiente e per dirigermi nella zona dove sarebbe venuto a prendermi il mio amico alle 18.30. Il tipico bar spagnolo di fronte allo stadio è arredato da altrettanti tipici vecchietti riuniti intorno al tavolo a giocare a carte, parlando ovviamente di calcio. Un té caldo scalda mani e cuore mentre li ascolto nominare Ruiz e il Napoli. Non resisto e rivelo la mia identità, anche se ormai in molti se ne sono andati. E resto da solo a parlare con un anonimo ma simpaticissimo settantenne che mi parla del Villareal degli anni ‘70, qualcosa a me sconosciuto quanto i kanji giapponesi. Non ci presentiamo nemmeno, ma parlando di calcio il tempo scorre veloce, mentre lui mi racconta che dopo un infarto avuto quindici anni prima gli è stato proibito lo stadio, ma di rinunciare alla birra o al calcio in tv neanche per sogno.

    Giovedì lui non sarà al Madrigal. Io, invece, non vedo l’ora di tornarci. Per la terza volta in cinque anni.

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