L’amore per il Napoli ci dà anche il diritto di incazzarci, cari fondamentalisti

Non è accettabile che una parte dei tifosi e della stampa assegni patenti di fedeltà, e scomunichi quelli che criticano il club. Da sempre, come ricorda Nick Hornby, la passione per il calcio è fiamma che arde, non un’opzione filosofica
  • di Peppe Napolitano

    Nel ringraziare Boris Sollazzo  per l’invito parto da una premessa e non solo perché è la prima volta che scrivo su Extranapoli.

    Chi scrive è abbonato da 38 anni consecutivi al Calcio Napoli, di cui 14 vissuti fuori Napoli per lavoro (3 a Bari e 11 a Roma) che non mi hanno mai impedito di essere sempre presente sugli spalti del nostro tempio, compresi gli anni della B e dell’inferno della  C.

    Chi scrive, quando rinnova l’abbonamento, lo fa a prescindere dal suo giudizio su Società, campagna acquisti , rosa e tecnico di turno.

    Chi scrive, quando si perde o pareggia, somatizza il dolore e stacca tutto per giorni e combatte contro lancinanti dolori di stomaco.

    Chi scrive, nonostante ne abbia viste di cotte e di crude, ancora oggi si emoziona e non esita a piangere per partite e risultati importanti per la maglia azzurra.

    Chi scrive ha dei familiari che sanno che per gli eventi importanti della famiglia prima di decidere la data, che siano matrimoni o altro, se vogliono includermi negli inviti, devono chiamarmi per consultare il calendario del Napoli.

    Chi scrive ha due figli che, quando hanno richieste particolari da fare, si informano prima del risultato del Napoli perché se ha vinto e allora “questo è il momento buono”.

    Premesso ciò mi preme sollevare una questione.

    Dal mese di luglio si è, attraverso i media e in particolar modo sulla rete con i social network e varie testate on-line, scatenata una vera e propria guerra di religione tra tifosi e non a partire dall’insoddisfazione per le scelte societarie su campagna acquisti e obiettivi stagionali. Si dirà fin qui nulla di nuovo sotto il cielo visto che discussioni del genere sono il sale del tifo.

    Vero, ma fino a un certo punto.

    A mio modo di vedere c’è un salto di qualità anche nell’approccio alle discussioni che ci segnala un mutamento direi quasi antropologico che richiama fanatismi e fondamentalismi tipici dei nostri giorni e che non riguarda più soltanto il tifoso ma che coinvolge anche addetti ai lavori e giornalisti.

    Ciò che trovo sconcertante è l’equazione che se critichi la società, o qualche prestazione della squadra, scatta subito l’invito a tifare altro o ad essere etichettato come “tifosotto” e invitato per questo a cambiar sport o squadra.

    C’è chi ormai si erige a misurare il tasso di attaccamento alla maglia e a rilasciare patenti sulla qualità del tifoso. A ogni prestazione della squadra scatta la litania del “dove sono quelli che…” a seconda della tesi che si vuole sostenere, quasi a sottintendere che possa esserci qualcuno che possa godere se si perde o pareggia.

    Guardando alla mia esperienza, e a quella di tante generazioni di tifosi, se avessi assunto questo “principio” avrei dovuto fare l’abbonamento solo nel settennato magico di Dio-Diego, avendo criticato le gestioni societarie passate di Ferlaino, Naldi e compagnia bella, per non parlare delle campagne acquisti che hanno caratterizzato la nostra storia. Del resto il calcio lo si giudica per fasi e non dimentichiamo che anche nel periodo del settennato ci furono critiche, e chi era sugli spalti, nell’anno dello scudetto, sa benissimo che alla metà del girone di ritorno, in coincidenza con una piccola flessione della squadra, se ne sentivano di tutti i colori.

    Certo, oggi con la rete e con le tv tutto viene amplificato ed esasperato, con le telecamere che entrano perfino negli spogliatoi. La rivoluzione nel modo di raccontare il calcio ha avuto una valenza, a mio modesto giudizio, anche su una mutazione antropologica di vivere la passione e il tifo, ma qui siamo su un terreno di natura sociologica che non mi compete e che pure andrebbe affrontato.

    Io rivendico il mio diritto di applaudire la società se ritengo abbia fatto scelte condivisibili per la crescita della squadra, come riconosco abbia fatto fino allo scorso anno,  cosi come rivendico il diritto di criticarla se ritengo che le sue scelte vadano in una direzione opposta, come quelle fatte a mio giudizio quest’anno, senza che ci sia nessuno che mi possa attribuire una patente sull’intensità del mio modo di vivere la passione per la maglia. Questo vale per le prestazioni della squadra, per i singoli giocatori o per l’allenatore di turno.

    Lo dico anche da convinto Rafaelita, consapevole che abbiamo un grande allenatore, ma i giudizi, per partito preso o a prescindere, non mi sono mai piaciuti  perché, per formazione, sono abituato a ragionare sulle cose e sul “mondo” in modo laico, ritenendo  il fanatismo e i fondamentalismi , da qualunque parte provengano, un’offesa all’intelligenza umana.

    E per questo ritengo che nessuno, e men che meno addetti ai lavori o giornalisti, possano rilasciare patenti di tifoso perché questo modo di ragionare è la stessa logica  della mentalità ultrà in nome di “quelli di Gela…” che ho sempre criticato pur essendo presente a Gela e in altri campi.

    Del resto si può criticare anche per troppo amore, e se un figlio fa una marachella tu lo richiami, e in proporzione alla gravità della marachella gli dai anche una punizione: ma non per questo non lo ami più, e rimane sempre nel tuo cuore e la luce dei tuoi occhi.

    La passione e la malattia per la maglia azzurra è qualcosa che ti entra nelle vene e scorre nel tuo sangue e o è viscerale o non è malattia, ed è quella intensa passionalità che nei momenti no ti porta anche a imprecare e a criticare per troppo amore, come poeticamente ci ha dimostrato Paul Ashworth, il protagonista del mitico romanzo di Nick Hornby  “Febbre a 90°”, che ci racconta il suo rapporto con la sua malattia per l’Arsenal.

    E allora mi verrebbe da dire che chi si erige a dare patenti di tifo in base al grado di condivisione delle scelte della società o in base al consenso ad una prestazione, probabilmente perde di vista la visceralità della passione che ognuno vive a suo modo ma con quell’elemento di irrazionalità che è sempre presente nei grandi amori.

    Per un malato è sempre stato così e così sarà per l’eternità, perché come ci ricorda il piccolo Paul in Febbre da 90° “…noi non supereremo mai questa fase”.

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