La “piccola” sindrome del Napoli

Grandi con le grandi, piccoli con le piccole: per inseguire la nobiltà, gli azzurri stanno perdendo le loro radici operaie. Ma a che prezzo?
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    di Francesco Albanese

    C'è una sindrome di cui soffre questo Napoli. Potremmo chiamarla “piccola” sindrome, dove l'aggettivo non sta ad indicare la trascurabilità del male, quanto la sua natura. Ormai disponiamo di troppi indizi che ne attestano la presenza. Esempi? Sassuolo, Parma, Udinese, Chievo, Bologna, Cagliari, Atalanta, Genoa. Insomma gli uomini di Benitez se non devono annientare i vice campioni d'Europa, se non sono chiamati ad annichilire la miglior squadra della Champions fino a dicembre, se non devono ribaltare un 2-3 contro la super Roma di Garcia fanno fatica (è un eufemismo) a carburare. Il massimo obiettivo col minimo sforzo è quanto il Napoli vorrebbe ottenere con le avversarie meno blasonate, intento condivisibile ma che raramente produce gli effetti desiderati. Insomma stiamo assistendo al ribaltamento di quello che succedeva soltanto un anno fa. Il secondo posto firmato da Mazzarri fu soprattutto opera dei successi a raffica ottenuti contro la colonna di destra della classifica. Cavani e soci cannibalizzavano le franchigie più deboli (quasi sempre) in casa e fuori e se un appunto poteva essere mosso a quella gestione era di non sapere invece affrontare con la giusta personalità le cosiddette partite della verità. Oggi la realtà si è di fatto ribaltata. Al netto delle eccezioni, Benitez ha impresso una svolta importante sotto il profilo della mentalità: tutte le partite di coppa fin qui disputate al San Paolo gli azzurri/gialli le hanno vinte, questo dato qualcosa vorrà dire? Per inseguire la nobiltà, stiamo perdendo di vista le nostre radici operaie. Siamo il Napoli, non ce lo possiamo permettere.

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