C'eravamo quasi andati (in Champions)

Napoli-Lazio vissuta in un locale di Roma: rabbia, gioia, disperazione e tanta birra. Cronaca di una vittoria mancata e di una fede ritrovata.
  • di Angela Giuliano (@artforcuozzis)

    C'eravamo quasi andati.

    Brucia ancora, inutile negarlo.

    Per qualche giorno ho preferito isolarmi, non leggere giornali, non posare gli occhi su qualcosa che fosse azzurro.

    Ho evitato di alzare lo sguardo al cielo anche.

    Roma, quartiere Pigneto, orario imprecisato dopo la fine di 90 minuti.

    So del quarto goal dal boato che esplode nel silenzio di una domenica sera in cui tutti sono fuori per il lungo ponte mentre io cammino, prigioniera di una passione, in una città svuotata.

    Mi ero appena lasciata alle spalle una tovaglietta rossa della Peroni su cui avevo poggiato, a più riprese, un bicchiere marcato Menabrea nel quale però avevo travasato dell'Ichnusa.

    Sullo schermo c'era scritto Napoli 2, Lazio 3.

    In questo piccolo locale gestito da quelli che suppongo siano indiani, ti servono un'ottima caponata di melanzane e fanno vedere le partite del Napoli; qui ho trovato – seppur da poco – un punto di riferimento per seguire gli azzurri in compagnia.

    Ho sempre amato il melting pot, l'ammiscafrancesc', in tutte le sue versioni.

    Mi piace l'idea di far risuonare in quel piccolo spazio stravaganti sonorità partenopee (colorite imprecazioni, soprattutto) cui fanno da sfondo le facce impassibili di queste persone venute da un altro mondo a cucinare anche un'ottima matriciana, tra l'altro.

    Qui ho assistito all'epica vittoria in terra tedesca, onorata con tanta ma proprio tanta birra.

    Peroni, però.

    Qui ho assistito alla mazziata presa dalla Lazio.

    Anche gioia e dolore, vittoria e sconfitta, s'ammescano ineluttabili in questo luogo melting pottesco.

    Il rigore non l'ho visto, come mio solito.

    Mi son tappata le orecchie ed ho approfittato dello spazio finalmente sottratto all'invadente recinzione gialla del cantiere della C per mettere in atto il mio rituale scaramantico che mi porta a girovagare annanz' e aret' come un'anima inquieta.

    A far da sfondo una luna alta in cielo e l'ingresso, avveneristico, di una metro non ancora in funzione.

    Il silenzio surreale la cassa di risonanza perfetta per venire a conoscenza dell'esito: un'esplosione di

    “Dajeeeeeeee” e qualche insulto in romanesco proveniente da una finestra illuminata mi danno la consapevolezza, piena, di ciò che è appena successo.

    In quel momento immagino delle piccolissime particelle di suono che convergono velocissime e cazzimmose verso i miei condotti auricolari, attraversando le dita infilate a forza nell'orecchio e propagandosi, trionfanti, nella mia testa.

    La palla non è entrata.

    Non so come, non so perché, in quel preciso momento so solo che è finita.

    Ho aspettato il terzo gol della Lazio per pagare il conto e stringere la mano ad un tifoso laziale davanti al quale avevo esultato senza ritegno alla nostra seconda rete.

    L'ho salutato e gli ho detto che era giusto così, che ci andassero loro in Champions.

     

    Mi sono incamminata verso casa, decisa a non pensarci.

    Passo svelto per scivolare via lontano dalla galleria di locali che costellano l'isola pedonale, lontano da schermi dal colore verde su cui si muovono figure e numeri che non voglio vedere.

    La notte insonne che ne segue è occasione perfetta per fare un po' di ordine terapeutico.

    Tra i tanti ricordi appuntati, molti dimenticati, altri stropicciati vien fuori una cosa scritta tempo fa; ero appena tornata dallo stadio, il pareggio con l'Inter era valso la nostra prima qualificazione in Champions.

    Ricordo ancora quella sensazione, forte, di essere partecipe di un evento epocale.

     

    “Quel boato risuona ancora nelle casse toraciche, l'emozione ancora solleva l'epidermide. L'orgoglio trasborda impetuoso da ogni angolo.

    Ogni cosa è azzurra.

    E io ripenso a Ieri. Al Napoli degli anni '90, alle lacrime di Fabio Cannavaro con addosso una maglia gialla e blu, ai gol di Schwoch la cui immagine fu impressa anche su alcune bandiere. E ai baffi di Corbelli e allo sguardo triste di Naldi, ultimo timoniere di un Napoli che affondava. E la riduzione di una sigla sontuosa in un mucchio di carte sparse sul tavolo di un giudice fallimentare. E una nuova veste per i colori azzurri, americaneggiante come quel produttore cinematografico che con pochi soldi e nell'indifferenza dei più portava tra le rovine di Paestum un embrione di squadra con a disposizione qualche pallone comprato all'ultimo momento. Montervino e Montesanto l'immagine emblematica di un'avventura che portava nel nome di questi tutta la fatica della scalata che sarebbe seguita. Ripenso al mio primo abbonamento caparbiamente voluto perché in quella lettera C Ci Credevo. Le mie prime trasferte in stadi dal colore della polvere e l'amarezza, tanta, ingoiata e rifluita fuori in lacrime ad Avellino.

    Ancora C.

    Allora non potevo immaginare che da scarna e faticosa qual era quella lettera, si sarebbe arricchita di un nuovo significato, sancita da una motivo musicale che avrebbe fatto vibrare molte corde vocali. Non lo immaginavo allora, ma lo vivo adesso.”

    Ho riletto quelle parole più volte, ho rivisto una me che avevo quasi dimenticato.

    Ho ritrovato, in quell'immagine lontana, il motivo, il senso del mio tifare Napoli.

    A prescindere.

    E in quello stesso momento ho deciso: l'anno prossimo si ritorna in curva.

    Con abbonamento e con la voglia, sempre più forte, di tifare Napoli.

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