Francesco Brandi, lo straniero della Nisida

Si avvicina la sfida del Bentegodi e uno dei giovani attori italiani più talentuosi del nostro cinema, racconta il suo Verona-Napoli più bello e più pazzo. E non solo quello
  • Missione di pace

    Ecco un altro capitolo di #Chevisietepersi - Il Manuale di chi tifa Napoli (ed. Fandango), quello in cui Francesco Brandi – splendido protagonista del film di Missione di pace, autore del monologo teatrale Avevamo tutti le Converse (e in entrambi c'è anche il nostro Napoli, in momenti cruciali) e ora in tv, su Raiuno, con la serie in sei puntate Un matrimonio di Pupi Avati – ci racconta, tra le altre cose, una partita importantissima della nostra storia recente. Proprio contro quel Verona che domenica pomeriggio sarà tra i più difficili avversari di questo campionato, l'ultimo del girone d'andata.

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    Quando ho incontrato Francesco Brandi, ci siamo riconosciuti. Diversi nel fisico e nel carattere, su fronti lavorativi opposti: lui attore, io critico cinematografico. Compatibilità improbabili, ma ci siamo scoperti uguali nell’unica cosa che per noi conta: l’amore selvaggio, disperato, tenero, cieco per il Napoli, nell’essere orgogliosi dei tempi bui e quasi pudici nel commentare quelli attuali.
    Brandi è uno dei migliori interpreti del cinema italiano: recuperate Missione di Pace di Francesco Lagi. Con lo zio Silvio Orlando combatte ad armi pari, tra assist e dribbling degni dei duelli e dei sodalizi calcistici migliori. Un po’ come Maradona e Careca: quando erano in azzurro, ma anche quando, nei faccia e faccia, si battevano nelle loro nazionali. In quella pellicola, Francesco si è dedicato una scena: una romantica cronaca dal vivo di un gol del Napoli, giocando da solo a pallone.
    In un teatro della periferia romana, mesi fa, ho scoperto che a scrivere era bravo come a recitare. E non potevo non approfittarne perché scrivesse di Napoli.
    Mi, ci ha regalato questo racconto, in cui c’è lui, c’è il tifoso del Napoli “straniero”. C’è chi ha passato le scuole sentendosi chiamare “Napoli!”. Ci schernivano quei ragazzini ottusi, ma noi lo vivevamo come un orgoglio.
    Questa è la lettera d’amore di uno degli alfieri della nostra generazione di fenomeni tenuti sempre in panchina mentre i brocchi continuano a giocare. E qui scoprirete che il suo enorme talento è pari a una cosa sola: la sua passione azzurra.

    Introduzione doverosa

    La lettura di questo testo è di fatto sconsigliata, per non dire vietata, a tutti i tifosi di Hellas Verona e Salernitana. Non mi va sinceramente di sprecare fatica, notti e convulsioni, per mettere a servizio dei suddetti esclusi dal calcio che conta, critiche strumentali, o peggio una sorta di bibbia dell’odio, da portare in bagno in caso di stitichezza. Dato che la considerazione che ho di loro è esattamente pari alla stitichezza che le mie righe sbloccherebbero, ecco, facciamo un patto: io non scrivo di voi, voi non leggete di me. Quanto alla stitichezza di salernitani e veronesi, temo che sia un falso problema. Infatti, dubito che un tifoso vero di tali squadre ne possa soffrire: gli spettacoli offerti dai loro idoli ogni domenica da svariati decenni a questa parte aprono semmai scenari completamente opposti, quali metabolismi particolarmente funzionanti, o nella peggiore delle ipotesi, dissenterie di ogni tipo. Io non sono un medico, però un consiglio sento di potervelo dare: cambiate squadra, al limite smettetela proprio con il calcio. Vedrete il vostro equilibrio migliorerà, e potrete pure leggere queste righe.

    Qui non parla di violenza, di rivalità, di cori, striscioni, insulse rivendicazioni territoriali, di polizia. Non me ne frega nulla della mentalità ultras. Ma non parla nemmeno di paytv, di partite truccate, di commissari straordinari, di scandali e procuratori. Di ministri, trasmissioni, opinionisti e moviole. Purtroppo non ci saranno nemmeno veline, mogli e soubrette varie.

    Esiste nel calcio una terra di mezzo, fatta di solitudine, idoli di carta, a cui appendersi a ogni costo. Di soldi buttati, storie finite ma forse no. Di quadri di Caravaggio e chitarre elettriche. Di calci casuali a un destino ridicolo. Questo testo parla esattamente di ciò.

    Ed è dedicato al Pocho Lavezzi, e a tutti quelli come lui, e quindi, come me.

    TRIBUNA NISIDA

    Quando mi chiedono per che squadra tifo, alla mia risposta, immediata e convinta, mi guardano tutti storto. Quasi come se li stessi prendendo in giro. E infatti me lo richiedono. Ma la mia risposta, sempre più pronta e convinta, non cambia. Non cambierà mai. E’ l’unica certezza di una vita scientificamente precaria.

    Io tifo per il Napoli.

    E letta così, questa frase è molto semplice e molto bella. Ma se la leggessi io quella frase meravigliosa, la semplicità diventerebbe confusione e la bellezza del contenuto si perderebbe tutto a causa della grettezza e dell’assurdità del mio accento. Io sono nato e cresciuto in provincia di Verona, nel posto più sbagliato dove può nascere un napoletano: Verona e i suoi tifosi, e buona parte dei suoi abitanti, odiano Napoli e tutto quello che ne deriva. La cosa peraltro è reciproca. Sono due culture opposte e inconciliabili. Una cosa che va oltre il razzismo, e l’odio tra nord e sud. Una rivalità atavica, senza paragoni in Italia e credo nel mondo. Io sono una sintesi illogica e inquietante tra queste due città. Dovreste guardare l’assimetria del mio volto per capire di cosa parlo, la magrezza del mio corpo, il disordine dei miei capelli, ho somatizzato tutto. Infatti sono brutto. Inoltre, per l’antropologia non esisto, per la geografia del calcio sono un’isola deserta, introvabile sulle mappe di ogni latitudine. Per la vita, sono semplicemente uno che tifa in maniera sfegatata per la squadra di suo padre, con un accento pesantissimo che lo porta però da tutt’altra parte e che lo fa sentire straniero ovunque, anche in casa propria. La mia distanza da Verona e dai suoi costumi non si limita solo al calcio: sono astemio in una terra di vini e alcolisti, di sinistra in zone dominate da razzismi e fascismi di ogni tipo. Completamente distante dalla cultura del lavoro, che ha trasformato nel giro di trent’anni quelle paludi nelle terre più ricche d’Europa. Ma anche da Napoli sono abbastanza distante, non la conosco quasi per nulla in realtà, so andare solamente allo stadio e solamente dal Vomero, che è una collina che sta sopra Napoli, senza considerarsi quasi mai Napoli. Quando arrivo in stazione ho sempre paura che mi rubino il portafoglio e il cellulare, anche se non mi è mai successo. Certo, amo De Filippo e Troisi, ma mi sembra poco. So a memoria tutte le formazioni del Napoli dagli anni 80 a oggi. Passo le mie estati a Procida, e questo potrebbe essere già un sacrificio degno di un napoletano vero. Il problema è che io mi sono sempre sentito un napoletano vero. Non ne ho mai avuto nessun diritto, probabilmente. Ne sono cosciente, ma quel diritto me lo sono conquistato nell’unico modo a me concesso: dando sangue, gioventù, lacrime e sogni al mio magico Napoli, votandomi a lui sempre e per sempre.
    Ed è la cosa più bella della mia vita, la prima e, finora, unica scelta giusta che ho fatto. Considerando poi Verona, la sua squadra, la sua storia, la sua gente, devo dire che non era nemmeno così difficile scegliere bene. L’unico seme di veronesità che mi è rimasto è la puntualità, non sono mai arrivato tardi in vita mia. Mi ricordo, una volta, tantissimi anni fa, mi piaceva tantissimo una ragazza. L’appuntamento era stato fissato dopo estenuanti trattative con la mia timidezza, per un sabato alle due. Lei si presentò alle 4 e mezza, stupendosi del fatto che io ci fossi ancora. Si complimentò con la mia pazienza, e si scusò. “Perdonami, ma devo andare via. Alle cinque ho appuntamento con Martina”, disse uccidendomi di dolcezza. “Figurati, nessun problema, tanto ci vediamo lunedì a scuola”, provai a difendermi. Lei, non mi ricordo il suo nome, non ritenne opportuno aggiungere altro e se ne andò. Io rimasi per una buona mezzora nella stessa posizione delle due ore precedenti meditando sul nulla. Ero felice. Pioveva, eppure la mia gioia era irrefrenabile. Perché? Semplicemente, non ero solo. C’era una radiolina con me: uno di quegli aggeggi portatili, bruttissimi, senza alcun rispetto per il concetto di design che avrebbe di lì a poco invaso il mondo. E mi parlava con voce suadente, carezzava la mia attesa con frasi che erano musica. “Napoli in vantaggio, straordinario gol di Magoni. Raddoppio del Napoli, è il solito Scwhoch. Magistrale partita del Napoli che espugna un campo difficile come quello di Como e si lancia verso la serie A.” Ora… Provate a immaginare una musica celestiale che vi reca miracolosamente estasi e pace allo stesso tempo. La più celestiale del mondo, della storia intendo. Che so, tipo Mozart o Chopin. Oppure i Pink Floyd o i Beatles. Ecco non è nemmeno lontanamente paragonabile a quelle parole pronunciate da Carlo Verna, con il suo accento napoletano che spazza via ogni sospetto di neutralità. Ero in un posto orribile, pioveva a dirotto, un freddo da bestemmie senza peccato, la donna che in quel momento per me era l’amore l’avevo solo sfiorata. Ero decisamente sfigato, asmatico, astemio. Tutte caratteristiche che peraltro non ho mai perso crescendo. Eppure impazzivo di gioia. Il Napoli aveva vinto. A Como. E con quella vittoria era in piena corsa per risalire in serie A. Le statistiche mi confermavano che non si trattava di un momento qualsiasi: era dai tempi di Maradona che non si vinceva al ritorno dalla sosta di Natale, in trasferta per lo più. E se vogliamo, pure il destino mi faceva il piedino: la ragazza ritardataria era arrivata in perfetta contemporaneità con il gol del 2 a 0. Che urla che riesce a tirare la vita, seppure muta, quando porta in braccio un pallone targato realtà. Il pomeriggio del mio primo appuntamento, tornai a casa festante, e vi trovai mio padre ovviamente euforico. Lui la partita l’aveva vista in tv e io provai un’invidia schifosa nei suoi confronti. Tutt’oggi, non sopporto che qualcuno veda una partita del Napoli e io no. E che me ne parli, specie se il Napoli ha vinto, anche se si tratta di mio padre. “Abbiamo giocato meravigliosamente. Loro proprio non c’erano. E poi Schwoch a me fa impazzire, ci porterà in A. E tu l’hai vista?”. “Si.” E lui, ancora. ““E dove?”

    “Da Marco. Ma secondo me dobbiamo stare più attenti sulle palle inattive, e restare più concentrati dopo essere andati in vantaggio, senza rischiare di continuo il pareggio; altrimenti non ci andiamo in A.”

    Esistono banalità, concetti standard, frasi fatte, che puoi sempre usare quando parli di calcio. Sono come dei codici, delle menzogne, facilmente smerciabili, se per qualche motivo non hai visto una partita, e per qualche altro motivo devi fingere di averla vista. Se usi il tono giusto, generalmente abboccano. Tutti, più o meno.

    Mio padre abboccò, ma passò al contrattacco.

    “La prossima volta andiamo insieme da Marco a vedere la partita. Così non devo più andare in caserma al Circolo Ufficiali con il padre della mia alunna. Che stupido, potevo pensarci prima.”

    Mio padre è un insegnante, costituzionalista, comunista, e soprattutto pacifista. Odia i militari i confini, le armi. Espone da quasi 15 anni una bandiera della pace, che mia madre cerca disperatamente di fargli togliere da quel balcone prima storico feudo di gerani in fiore e ora povero martire di una bandiera arcobaleno sempre più sbiadita.

    “Non la toglierò finchè ogni conflitto sulla terra sarà cessato…”. “Comprendi anche quelli del continente africano?”, chiesi una volta, speranzoso di vedere la facciata della mia casa libera per sempre. “Certo, le centinaia di guerre dimenticate sono la piaga più infame dell’occidente…”. Le mie speranze cessarono per sempre.

    All’epoca avere Sky, o cose così era una roba difficile, quasi da ricchi direi. E noi ricchi non lo siamo mai stati. Infatti per vedere qualche partita del Napoli eravamo costretti ad andare al circolo ufficiale della caserma di Legnago, in mezzo a questi guerrafondai meridionali, tutti con i baffi. Tutti paracadutisti.

    Sono cambiate un sacco di cose. Fortunatamente.

    Il Napoli è forte, abbiamo Sky e, soprattutto, io non abito più qui. Mi sono trasferito a Roma. Una liberazione. Soprattutto perché ho potuto coronare il mio sogno: abbonarmi al Napoli. La mia vera liberazione è infatti datata 20 settembre 2004, il giorno in cui ho sottoscritto il mio primo abbonamento al Napoli, che all’epoca militava in serie C e non si chiamava Napoli, ma Napoli Soccer. La mia libertà l’ho trovato in tribuna Nisida, settore dello stadio S. Paolo, che, curiosamente, si chiama come un carcere minorile. Unico settore dello stadio dove si rispetta una regola ferrea: ognuno ha il suo posto, quello indicato sull’abbonamento, o sul biglietto, con fila e settore. Non si può sgarrare, chi sbaglia, anche in buonafede, viene visto malissimo, guardato con diffidenza, a volte cattiveria, segnalato agli stewart e, letteralmente, rimesso a posto, il suo, quello giusto. E’ un angolo dello stadio svizzero, ma fedelissimo, più di una curva. Infatti, nell’entusiasmante cavalcata dalla serie C alla Champions, che io ho vissuto tutta per intero (Tribuna Nisida A, Fila 6, Posto 7), gli abbonati erano sempre gli stessi, salvo qualche defezione, dovuta, temo, al decesso del titolare del posto. Si sono create vere e proprie amicizie e credo, anche amori. Anche io, dopo gli iniziali imbarazzi dovuti alla mia turpe parlata, sono diventato uno del gruppo, e a poco a poco, sono diventato uno di famiglia, con tanto di auguri e regali per Natale. La mia casa l’ho trovata lì, in Tribuna Nisida, solo lì, sedendomi sempre allo stesso posto, quelle due ore, non mi sento precario, e forse, addirittura felice.

    Ma la gioia più grande, l’ho vissuta da solo, allo stadio di Verona, durante un Verona Napoli in serie B, decisivo per entrambe, loro per salvarsi, noi per vincere il campionato. Sono stato zitto tutta la partita, sentendo qualsiasi tipo d’insulto, non ho esultato ai due gol di vantaggio del Napoli, sono rimasto fermo, una statua, anche quando il Verona ha ridotto le distanze. Sul due a uno per noi, loro attaccavano a testa bassa, il pubblico li incitava, con la solita, scontata volgarità, cioè insultando noi. Io ero fermo, una statua greca, il mio volto era fermo, il mio corpo ancora di più, le mie braccia conserte, fino alla paralisi, nonostante dentro di me fossero in atto, alternandosi, un terremoto e uno tzunami di sentimenti ed emozioni. Al 92mo, il Napoli, dopo 25 minuti di assedio, supera la metà campo, con tre passaggi fa gol. Manuale del calcio. 3 a 1, Sam Dalla Bona. Gioco, partita, incontro. Noi in serie A, loro in serie C. Io sono scoppiato in un urlo di gioia, che nemmeno Manfredi in Pane e Cioccolata, e ho cominciato a correre, gridando di tutto. Ho corso fino alla stazione dei treni, fino a raggiungere, molti chilometri dopo, una cosa a cui non avevo pensato, tanta la goduria: la mia incolumità. A tutt’oggi non ricordo una gioia più grande. In quel momento ho capito che la vita aveva un senso per davvero.

    Cambieranno ancora un sacco di cose. Ne sono convinto. Mi sono accorto di essere ingrassato un po’, di essere cresciuto, il mio viso è diventato un pò più armonioso e mio padre ha tolto la bandiera della pace e non va più a votare. Ma la violenza della mia napoletanità, l’assurdità della mia battaglia, il cuore della mia vita sono rimasti sempre gli stessi.

    E se sono riuscito a capire, anche solo per pochi istanti, cosa vuol dire essere felici, lo devo te, solo a te, mio magico Napoli.

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