Napul è DEVE essere l'inno. Anche se per molti c'è voluto il morto, per capirlo

Fino alla tragedia che ci ha strappato troppo presto Pino Daniele, pochi pensavano al suo capolavoro come canzone simbolo del nostro Napoli. Ora sono persino in troppi a sostenerlo. Ma va bene lo stesso, è giusto così. E che nasca stasera, il nuovo, inno
  • ilsussidiario.net

    di Enrico Ariemma

    Molti ricorderanno che all’altezza del maggio 2013, twittando twittando, il Presidente partorì il sondaggio. L'inno. Già, l'inno. Composto ex novo, pezzo di ‘tradizione’, brano di matrice contemporanea? Si può affermare con ragionevole certezza: mai avremo un “You’ll never walk alone”, mai uno “Stern des Südens”, mai un “Tot el camp és un clam”; e tuttavia si obiettava, all’epoca, che un inno - “ ’O surdato ‘nnammurato” - ce l’avevamo già, frutto di una spontanea movenza ‘dal basso’, in un giorno di festa, all’Olimpico, quarant’anni fa. Era anche pur vero, d’altronde, che deprivare l’ “OjVitaMia” della sua collocazione finale, utilizzandolo prima di ogni partita, sarebbe apparso del tutto ‘contra morem patrium’. Ma tanto qualcuno aveva già deciso per me, per tutti: su OjVitaMIa andava operata rimozione, concreta e psicologica. OjVitaMIa, nella versione Ranieri ’71, nella sua destinazione finale e “fausta” (solo quando vinci, e solo contro le grandi), doveva scomparire. Forse perché “tuosto e cafone, comme ‘o ‘ppane d’a dummeneca”, come recitò uno striscione in un giorno triste assai, per il nostro tifo.

    Insomma, ci fu la consultazione preventiva della base, una roba, sia chiaro, fasulla, posticcia. Ci fu anche una composizione ad hoc ad opera del rapper Clementino, nemmeno disprezzabile e sottoposta alla preventiva approvazione delle curve (sic!).
    Ora, l’inno prepartita, la musica che scalda gli animi, che lascia fluire l’adrenalina, che aderisce come una guaina al cuore pulsante di ogni malato azzurro, dovrebbe esibire caratteristiche chiare, nitide, riconoscibili, di spessore, bellezza, identità, non soltanto calcistica.
    Chi propose l’invocatissima “I ragazzi della curva B”, esito di superficie di una idea del tifo del tutto tramontata oggi; chi la retorica, melensa, neomelodicissima (con buona pace del compianto Lucio Dalla) “Napule”; chi tirava fuori dal cascione un pezzo dimenticato e senza speranza di fare identità, come “Napoli, Napoli” del Giardino dei Semplici, gruppo gloriosamente storico del pop-progressive partenopeo anni ’70. E invece ci si inventa, auspice l’arbitrio estetico del Presidente, una rivisitazione in chiave pseudoetnica del ritornello di “’O surdato ‘nnammurato”: una robaccia trash inascoltabile, infruibile, con un incipit da litania funebre e vajassate da mercato ittico a gogò. Da quest’anno anche il gusto tamarro e coatto del Presidente si è arreso all’evidenza: niente inno (si fa per dire, inno), al massimo “Life is Life” durante il riscaldamento, “Go west”, per non più di trenta secondi, all’entrata in campo delle squadre.
    C’è un vuoto, dunque.
    In verità, ed assai sommessamente, mi permisi, in quel maggio 2013, di proporre all’attenzione “Napule è” (che mi piacerebbe non vedere storpiato in “Napul’è”, scivolone in cui incorrono anche penne avvertite e scafate). Io ero, allora, convinto che “Napule è”, un capolavoro scritto da Pino Daniele a vent’anni, potesse riempire quel vuoto, incarnare tradizione e modernità, rivitalizzare le coscienze, il tutto con un profilo di prodotto artistico di caratura 'superiore'.
    Mi si rispondeva più o meno “certo, chi lo nega: però, jammo, è una canzone su Napoli, non suL Napoli, e po’ è pure ‘nu poco lenta, ce vulesse pure ‘nu poco ‘e movimento”. Io invece, prescindendo da considerazioni ritmico-melodiche, volevo, e voglio, io ritenevo e ritengo prevalente e discriminante, qualcosa che rechi lo stigma dell’universalità, attorno a cui possa agglutinarsi la coscienza di un popolo di tifosi e di un popolo come tale, con la voce di un artista vero, nel quale tutti (e non una parte) proiettano qualcosa di sé, che parli alla città della città, di come è, di quello che siamo come napoletani e non come tifosi.
    Ma autorevoli esponenti dell’autoproclamata intelligencija dell’opinionismo pallonaro di queste parti continuavano a esibire distaccato scetticismo. Poi, è arrivato lunedì. E hanno fatto partire la crociata. “Napule è sia l’inno”, urlano a gran voce, con timing troppo perfetto per non apparire sospetto. Ci vuole il morto, alle volte, ma li perdono, li perdoniamo volentieri.
    Poi pare che il presidente stia preparando qualcosa, per stasera. Che sia un punto di non ritorno. Che avvicini alla città, anche attraverso un gesto simbolico di rilevanza siderale, un Presidente amministratore (non imprenditore) impeccabile, ma troppo spesso dispensatore sistematico di spregio per storia, cultura, radici, identità. Serata giusta due volte. Perché poi stasera c’è Napoli-Juve, una partita che normale non sarà mai.
    Che da stasera e per sempre Napule è segua la lettura delle formazioni (e già che ci siamo, che OjVita segua il fischio finale, anche quando perdiamo in casa col Chievo). “Mille culure, mille paure, ’a voce d’e’ creature,’ nu sole amaro, l’addore ‘e mare, ‘na carta sporca, ‘na camminata dinto ‘e viche, tutto ‘nu suonno”. Poesia capace di filtrare quello che siamo, quello che ci portiamo dentro dal lunedì al sabato; e poi anche la domenica. Poesia capace di scioglierci non soltanto in un abbraccio ideale, ma in un reale intreccio di mani. Poesia capace di rendere suono e immagine la divina malinconia che sappiamo magicamente far convivere con la gioia e il privilegio terribile di essere nati qua.
     

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