Roma-Napoli, un gemellaggio finito tra i misteri (prima parte)

C’era una solida amicizia tra gli ultras, e i partenopei consideravano la curva Sud un modello di tifo. Poi nell’ottobre dell’87, esattamente 25 anni fa, accadde qualcosa di strano
  • L'allora consueto scambio dei bandieroni che celebrava il gemellaggio tra ultrà del Napoli e della Roma
  • di Errico Novi

    Sono passati venticinque anni ma sembra un secolo. Oggi c’è un altro calcio, un altro modo di tifare e ci sono due città più lontane tra loro. Da fine anni Settanta a buona parte degli Ottanta quello tra Roma e Napoli è stato il gemellaggio ultras per eccellenza. Oggi romani e napoletani si guardano a distanza e di traverso non solo sugli spalti. Come se la rottura consumata a suo tempo tra le tifoserie avesse poi favorito una reciproca e più generale diffidenza. Ma appunto, cosa successe? Come finì quell’idillio tra le torcide? Ci sono diverse teorie. La più gettonata è anche la meno esaustiva: il gemellaggio sarebbe andato per aria dopo il gestaccio di Bagni alla fine di Roma-Napoli dell’87-88 (valga come esempio questo articolo di laroma24.it). In realtà qualcosa era franato come minimo prima del match. E in effetti sarebbe più verosimile una versione che circola a Roma, secondo cui nella stagione precedente un romanista sarebbe stato accoltellato da tifosi del Napoli: ma neanche quest'ipotesi è stata mai avvalorata dai capi ultrà di allora. Qui si proverà a offrire una piccola testimonianza personale su cos’era quel derby. Insufficiente a fare chiarezza ma forse utile a evocare il clima di quegli anni.

    Curva Sud, un modello nazionale

    Prima di tutto la Sud era un modello. Lo è stato per gran parte delle curve italiane, ma nel caso degli ultrà – allora si chiamavano così – partenopei l’emulazione era persino eccessiva. I cori innanzitutto: li copiavamo quasi tutti da loro. Almeno quando la metrica lo consentiva. Tanto per fare un esempio, nell’anno del nostro primo scudetto ci presentammo all’Olimpico in gran spolvero, come squadra e come tifo, e con il  nostro nuovo “hit”, il coro dell’Armata Brancaleone, preso a prestito pari pari dai romanisti che lo cantavano già da un anno. Sulla capacità dei Cucs di adattare motivetti di successo alle esigenze del canto curvaiolo circolavano varie leggende. Tra queste il fattivo contributo offerto da Antonello Venditti. In realtà il gruppo storico che nel 1977 aveva riunito varie sigle del tifo giallorosso annoverava ragazzi dotati di una creatività non comune, da Antonio Bongi a Geppo, capo ultrà divenuto famoso anche fuori dalla Capitale per due lettere pubblicate con grande evidenza dal Guerin Sportivo.

    Gli ultrà napoletani riprendono dai Cucs il nome e i cori

    I capi della tifoseria napoletana guardano con ammirazione a quanto i romanisti sono capaci di fare. Uno di loro, Gennaro Montuori, mutua innanzitutto il nome dei Cucs giallorossi, adattato nell’acronimo Cucb. Quindi comincia a importare molti cori dalla Sud e a ospitare regolarmente gli amici romanisti in curva B quando si gioca a Fuorigrotta. Personalmente non dimentico la scena del mio primo derby del Sud: stadio San Paolo, 10 ottobre 1982, la Roma di Liedholm destinata a vincere lo scudetto viene a Napoli accompagnata da migliaia di tifosi, sparsi un po’ ovunque ma concentrati soprattutto in curva B, a fianco agli ultrà azzurri. A fine partita la Roma vince 3-1 e i tifosi del Napoli inscenano una clamorosa contestazione, riescono a scassare le panche di marmo dell’anello inferiore. Una furia cieca, esito di tensioni sedimentate dalla stagione precedente e alimentate anche dal clan camorristico dei Misso. In un contesto come quello c’è da temere che la rabbia si scarichi anche contro gli ultrà della Roma. Che invece restano liberi di accompagnare la vittoria giallorossa con i loro variegatissimi cori senza che gli venga torto un capello.

    Un gemellaggio più forte di tutto

    L’anno dopo il Napoli è ancora più debole. Non c’è più Diaz, Krol è davvero agli sgoccioli e tra i pochi a tenere in piedi la baracca c’è il compianto Dirceu. Roma-Napoli è la settima di ritorno: non c’è scampo neppure stavolta, vincono i giallorossi per 5-1. A risultato ormai acquisito, nella Nord dove sono assiepati i soliti ventimila tifosi azzurri salta il tappo della frustrazione: gli ultrà vanno a togliere gli striscioni, ma mentre se ne tornano in curva si uniscono a un potentissimo “Roma-Roma” che coinvolge tutto il settore dei napoletani. In una scena ingombra di macerie l’unica cosa che regge è sempre il gemellaggio. Insomma, tra romanisti e partenopei si consolida una vicinanza più umana che sportiva, visto il divario tra le squadre. Prima di ogni derby c’è uno scambio di bandiere o una sfilata per la pista di atletica con  gli striscioni. E probabilmente il tutto è amplificato dal compiacimento con cui i napoletani vedono una squadra in grado di rompere il predominio del ricco Nord.

    Quella domenica d’ottobre di 25 anni fa

    Ma qualcosa scricchiola nel Roma-Napoli dell’86-87, anno del nostro primo scudetto. C’è la solita invasione azzurra, c’è il consueto scambio di vessilli, ma a un certo punto la Sud comincia a inveire contro Bruno Giordano: l’odio per l’ex bandiera laziale è più forte del gemellaggio. Una piccola parte degli ultrà napoletani risponde a tono e dedica lo stesso coro offensivo a Bruno Conti. Finisce lì, ma è la prima volta da anni che qualcosa incrina la corrispondenza d’amorosi sensi. L’inspiegabile, almeno per il sottoscritto, si verifica l’anno dopo. Noi arriviamo all’Olimpico da campioni d’Italia. Il Roma-Napoli del 25 ottobre 1987 vede capovolta la consueta scala di valori calcistica. Il gemellaggio ufficialmente è ancora in piedi. Manca la solita mezz’ora scarsa al fischio d’inizio ed ecco i due portabandiera entrare nel rettangolo verde: un romanista e un partenopeo, come sempre. Corrono insieme verso la Nord occupata da un oceano azzurro: il coro “Roma-Roma” dei napoletani è al solito potentissimo ed emozionante. Lo scambio di bandiere però dovrà avvenire sotto la Sud. Lo sbandieratore partenopeo arriva lì, davanti al cuore del tifo giallorosso, tende il vessillo al collega, il quale fa un gesto difficilmente equivocabile e lo manda a quel paese. Niente scambio di bandiere, niente coro “Napoli-Napoli” e imprevista pioggia di fischi dalla curva Sud. Io sono in Tevere lato Sud, per scelta dell’incauto zio romanista che mi accompagna. Vedo tutto, vedo e sento i fischi e gli accendini che partono contro il napoletano proprio dal mio settore. Lo stordito ragazzotto azzurro torna comunque fiero con  il suo bandierone verso la Nord partenopea, che non ha capito bene cos’è successo dall’altra parte e che continua a intonare “Roma-Roma”. Calmatosi, sarà lo sfortunato protagonista dell’episodio a spiegare appena risalito sugli spalti. Gli effetti si colgono dopo il vantaggio giallorosso. I “Roma merda” subentrano alle amorevoli invocazioni udite poco prima. Finisce con un epico 1-1 che il Napoli strappa dopo essersi trovato in 9 contro 11 sull’1-0  per le espulsioni di Careca e Renica. A fine gara Bagni fa il famoso gestaccio mentre passa sotto la Sud, Maradona e gli altri nostri eroi vanno sotto la Nord e lanciano una pioggia di magliette ai ventimila e più innamorati che cantano senza fiato. Ricordo di essere scappato con mio zio via dalla Tevere pochi istanti prima del triplice fischio. E ricordo, lo ricordo bene, di essere andato a Termini a prendere il treno un paio d’ore dopo, di aver incrociato gruppetti di ultrà giallorossi che perlustravano il piazzale davanti alla stazione armati di bastoni. Intonavano un coro scandito, diverso dal “senti che puzza” ma con le stesse parole: “Colera e terremoto/ è sempre troppo poco/ dai, Vesuvio/ lavali col fuoco”. Io che pure avevo visto meglio di Palummella cos'era successo, comunque non capivo. E se c’è qualcuno che oggi, esattamente venticinque anni dopo, potesse spiegare… (1 – continua. Clicca qui per leggere la seconda parte)

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