Paolo Cannavaro, uno di noi

In vista del ritorno al San Paolo dell'ex capitano riproponiamo l'articolo di Boris Sollazzo pubblicato all'indomani della sua cessione al Sassuolo
  • di Boris Sollazzo

    È 31 gennaio. Qualche minuto prima delle 21, Mediaset Premium. Il ds del Sassuolo dà l'acquisto di Paolo Cannavaro per fatto. Pochi minuti dopo, l'ufficialità.
    Lo ammetto, mi si è spezzato il cuore. Ed è successo anche a Behrami: pensare che uno come Valon abbia bisogno di un punto di riferimento, fa tenerezza. Che ci scriva un tweet quasi romantico, ancora di più.
    Ma lì comprendi la grandezza di un uomo e di un capitano: assente in campo per scelta tecnica (o molto più probabilmente societaria), sempre presente nel cuore dei compagni che oggi si asciugavano le lacrime di fronte al suo sorriso malinconico, ma fiero.
    Penso a quel tatuaggio sul tuo braccio: 10 giugno 2007. Da vero tifoso, come me, sai che quel ritorno in A vale una Champions, forse più di uno scudetto. La fine di un incubo, anzi dell'incubo. E poi la Coppa Italia, 20 maggio 2012, l'inizio di un sogno. Tu che alzi il trofeo. Ma che potevamo tornare grandi, proprio in Coppa Italia, me l'avevi già detto proprio tu, Capitano, sei anni prima, a fine agosto del 2006: in rovesciata, al 120° minuto segnasti in rovesciata. Proprio ai bianconeri, retrocessi per Calciopoli, alla fine di un biennio passato da noi in C. Passammo il turno ai rigori, capimmo che il peggio era davvero passato.
    Rimane Uvini - che tutti sanno essere la mia adorata mascotte -, te ne vai tu. Quest'anno hai giocato da par tuo solo un girone fa: proprio contro quell'Atalanta che affronteremo domani. Senza di te. Mi sembra impossibile.
    Poi l'ingenuità contro quel Sassuolo che ti ha accolto, ora, e infine il disastro contro la Roma. Ma io volevo che rimanessi . Sognavo, magari, una tua partita del riscatto in Galles.
    Immaginavo che quella clausola delle 24 partite che ti raddoppiavano lo stipendio (o meglio, non te lo dimezzavano) non sarebbe più stata una ghigliottina sulla tua testa alle porte della primavera, quando ne sarebbero mancate di meno.
    Io, Paolo, con un'altra maglia non riesco neanche a pensarti. Senza il tuo sorriso largo dopo una grande vittoria, senza gli occhi arrabbiati e lucidi dopo una sconfitta, mi sentirò più solo.
    Scendendo dalla A alla B, svincolato, costringesti quell'Aurelio De Laurentiis che forse non t'ha mai amato a prenderti. Mi rendesti orgoglioso dopo anni di rifiuti.
    Ti avrei voluto in nazionale: lo avresti meritato. Ti avrei voluto al posto di Fernandez in questi mesi, avresti dovuto meritartelo. Ma è anche vero che come si fa a non calpestare più l'erba del San Paolo - tranne quella spelacchiata vicino alle panchine - se sei stato abituato a considerarla il pavimento di casa tua? Come si fa a entrare poco e male in campo, come se nulla fosse? Come puoi giocare dando tutto se il tuo cuore è spezzato?
    Paolo, maledizione, ti ho difeso ma anche criticato, non lo nego. Potevi essere ancora più forte di così: ma al tuo cuor non si comanda e per fare il profeta in patria hai rinunciato a diventare grandissimo. Napoli ti ha cullato ma ti ha anche maltrattato, spesso fischiandoti ingiustamente, anche se quando non indovinavi la partita, eri da infarto. Ma, diavolo, quando eri in forma, e succedeva spesso, li fermavi tutti. Tutti. Il momento più bello di questi dieci anni, per me, è stato il 92imo minuto di Villareal- Napoli, il 7 dicembre 2011. Entra Grava, per la sua prima (e ultima) partita in Champions League. Vi abbracciate, felici. Voi due, quella coppia che l'anno prima... altro che Benatia e Castan quest'anno. Neanche potevano allacciarvi le scarpe. Lo sa Morgan De Sanctis che chissà quante volte avrai sentito in questi mesi.
    Napoli ti è costata una squalifica che non meritavi e che, per fortuna, si è risolta in un solo mese di purgatorio. Mai ti sei lamentato: chissà che scappellotto hai dato ad Insigne per la sua spolverata polemica al pubblico nei quarti della coppa nazionale. Tu non hai mai parlato, hai sempre remato per il Napoli, anche dalle ultime file. Se hai aperto bocca è stato solo per rinnovare la tua eterna dichiarazione d'amore (come ai microfoni di Time Over di Francesco Marciano, su Radio Kiss Kiss, un'esclusiva giornalistica  piena d'amore, competenza, emozione), che poi è anche la nostra.
    Neanche stavolta hai lasciato spazio all'amarezza, alla rivalsa.
    Non meritavi quel finale, ma poco importa: il nostro film insieme è stato bello, movimentato ed emozionante. E spero in un sequel. In quell'obbligo di riscatto che Squinzi deciderà magari di non rispettare: ufficialmente il tuo è un prestito. Non voglio credere che sia finita qui. Napoli e il Napoli sono casa tua, Capitano. Noi siamo la tua famiglia. A volte ci siamo appiccicati, perché così succede quando ci si ama troppo. Ma io quei gol al Catania non me li dimentico, anzi, a dirla tutta, pure quello allo Spezia ce l'ho nel cuore. La prima vittoria in trasferta in serie B. E quella rovesciata famosa, come ti ho già detto, ce l'ho ancora addosso, come la gioia con cui ci abbracciammo quando invasi a Genova. Gli altri scappavano, tu quasi mi venisti incontro.
    E, sai, se Prandelli lo sopporto poco non è solo per quel buonismo un po' ipocrita e intermittente, ma anche perché a Parma e in azzurro ti ha tagliato le gambe.
    Domani giocherai contro di noi, confesso, sarà dura vedere la partita. Vederti dall'altra parte, immaginare la tua sofferenza, la sensazione innaturale di sentirsi estraneo ai propri compagni.
    Capitano, te ne sarai anche andato, ma rimani qua, nel mio, nel nostro cuore. Anche per quelle discese matte che mi facevano pensare, soprattutto per la grinta e  per il tiro potente ma troppo spesso sfortunato, che sei sempre stato un centrocampista mancato. Che quell'infame compito di difendere lo hai ricoperto per amore di una maglia, di una tradizione di famiglia, di una vita da gregario di lusso. Per essere fratelli di un Pallone d'oro e campione del mondo e decidere di giocare nella propria città, bisogna avere sei palle, come hai detto a inizio stagione su Twitter. Tu, semplicemente, le hai. Dodici, non sei.
    Non pensavo, capitano, che mi sarei sentito così orfano. Perché tu sei l'esempio del mio calcio, quello che amo, quello delle bandiere e dei calciatori tifosi, quello di chi fa una follia, o più d'una, "solo" per amore "di quei colori che a noi fanno soffrire".
    Non potevo chiederti di rimanere. Non era giusto. Ma in amore vale tutto: e allora te lo dico, ci ho sperato fino all'ultimo che tu non comparissi nella casella cessioni della società partenopea.
    Ora tiferò per te. Non domani, lo sai. Mi auguro che Malesani ti riconsegni il sorriso e magari, con un girone di ritorno clamoroso, tu possa conquistare il Brasile, con una convocazione a sorpresa. Te la meriti, anche perché nessuno ti ha mai regalato niente.
    Buon viaggio Capitano, hai lasciato la fascia a Marek. Lo sai bene anche tu che ne sarà degno.
    Non ti dimenticheremo, Campione.

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