“Maracanà, Maracanà, siamo venuti fino e qua”: il sogno chiamato Brasile

Si comincia: ecco i Mondiali nella patria ideale del calcio. Un’ebbrezza attenuata dalle proteste: che sono giuste, perché gli eccessi del business intossicano pure noi, e dovremmo imparare ad arginarli
  • di Errico Novi

    Da bambini non capivamo: perché “Super Santos”? Che voleva dire? Poi lo scoprivi: il Santos è la squadra di Pelè. È il sogno del Brasile in una sfera arancione. E il Brasile era proprio la terra dei sogni. Lo è ancora oggi per qualunque bambino giochi a pallone. A Napoli, nelle partitelle, quando ti riescono cose da funambolo dici, per autocompiacerti, “ma che r’è, ’o bbrasil’?”. E adesso ci risiamo, andiamo lì con il miraggio del Maracanà. Che è un sogno nel sogno, è una parola che evoca essa stessa immensità, gloria sconfinata: Maracanà. E tanto è vero che il nome di quello stadio entra persino nei nostri cori: “Maracanà/ Maracanà/ siamo venuti fino e qua/ e canterem/ e canterem/ forza gli azzurri alè alè…”, sulle note dell’Uva fogarina… Luogo di conquista e irraggiungibile nello stesso tempo. Perché per noi da bambini il Brasile non si batte. Si sogna e basta.

    È così fino ai Mondiali di Spagna. Fino al pomeriggio torrido del Sarrià, altro luogo dell’anima più che reale, come scrive Furio Zara nel suo 1982, bellissima rievocazione di quel trionfo: oggi lo stadio del 3-2, di Pablito che porta tre volte l’Italia in vantaggio e di Zoff che al novantesimo inchioda per terra la capocciata di Oscar, non esiste più. Pare abbia fatto spazio a un ipermercato. Fatto sta che il 5 luglio di trentadue anni fa, nella seconda fase del Mundial, noi il Brasile riusciamo a batterlo sul serio. E quella leggenda spazzata via da una leggenda ancora più grande è per molti della mia generazione un singolare modo di entrare nell’età adulta: come a dire che i sogni finiscono per lasciare spazio ad altri ancora più belli.

    Domani ci siamo. Comincia il Mondiale del Brasile. Una cosa mai vista. O forse no, perché i Mondiali in Brasile si sono già giocati un’altra volta: sessantaquattro anni fa per la precisione. E quanti possono dire di ricordarselo, che non c’era neppure la tv? Fu un’edizione a suo modo epica, per il dramma dei padroni di casa sconfitti nella partita decisiva con l’Uruguay. E stavolta? Tutto inizia nella morsa di un malessere che il popolo brasiliano vuole farci avvertire, oltre le magìe del rettangolo verde. Troppi sprechi, ci dicono, in un Paese in cui a molti manca l’essenziale. Ci sarebbero state le proteste se il calcio non fosse ormai trasfigurato in una giostra stellare? Forse no. Se fosse il gioco povero, o comunque ancora immune dagli eccessi, di quarant’anni fa, le proteste avrebbero scelto un altro bersaglio. Cos’è dunque che ci impedisce di avvertire fino in fondo questi Mondiali come una festa, le proteste o gli stravizi del pallone? I secondi, certo. E sì: la nostra passione è un continuo dribbling tra i miliardi di Messi e gli imbrogli di Blatter. Sono anni che ci hanno condannati a questo. Eppure la nostra passione non si estingue. È la stessa di quando correvamo dietro al Super Santos. Il fatto di doverla discernere tra i rovi del business può essere persino una metafora positiva. Dovremmo imparare che non solo nel calcio le cose potrebbero essere migliori di come sono. Se solo riuscissimo a difenderle da chi, le partitelle in cortile, forse nemmeno le faceva.

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