Buenos Aires, aria di Napoli

La capitale argentina, alla quale anticamente si accedeva per il porto della Boca, è un coacervo di dinamiche sociali che rievocano la nostra Partenope.
  • extranapoli

    di Antonio Moschella

    Il taxi (abusivo) che mi portava dall’aeroporto di Ezeiza a Buenos Aires si attaccava a un’altra vettura per passare il casello senza pagare il pedaggio. Mentre la sbarra sbatteva sul cofano e una campanella suonava un allarme pletorico, tra risate e sconcerto si stagliava dinanzi a me l’enorme massa di cemento di quella che 200 anni or sono era solo un porto. Un porto che nasceva nella ‘Boca’ del Rio de la Plata, attraverso la quale gli immigrati, italiani e spagnoli, entravano in città attirati dalle possibilità di una nuova vita. Un po’ come me. Con più illusione che concretezza.

    Già, la Boca. Il quartiere più viscerale della capitale argentina. Fu quello, casualmente il mio primo incontro con la realtà bonaerense. La persona che ospitava me e il mio compagno di viaggio, sempre casualmente, vive a pochi metri dalla Bombonera, la prima casa di Diego Armando Maradona, una delle motivazioni principali del mio trasferimento a Buenos Aires. Il taxi, più sperduto di me, passava nei dintorni dello stadio per stradine dove il giallo e il blu dominavano la scena e murales dedicati al ‘Diez’ ricordavano i quartieri spagnoli mentre i clacson delle altre auto creavano un sottofondo musicale piuttosto familiare, al quale mi ero disabituato durante i miei ultimi 3 anni in Spagna.

    Non poteva esserci miglior impatto per un napoletano che decide di cambiare vita e opta per l’Argentina. Una scelta dettata non da chiare opportunità di lavoro bensì dalla voglia di conoscere una realtà nuova ma al contempo familiare. Gli amici argentini che avevano visitato Napoli mi avevano raccontato di come si fossero sentiti in casa fin dal primo momento. E in quell’istante io mi sentii riflesso in quella loro descrizione. Per non parlare di quando un argentino viene a sapere da dove provengo: la cordialità e la disponibilità anticipano i classici discorsi su calcio e vita. Qualcosa che accomuna le due realtà dal 5 luglio 1984. O forse anche da prima, dato che gli argentini di origine italiana vengono chiamati “tanos”. Inutile spiegare il perché.

    Mancherà sempre quell’odore di caffè, una pizza a via tribunali e le varie abitudini gastronomiche che un napoletano non potrà mai abbandonare e che a 13mila km di distanza sono un miraggio. Oltre a quell’enorme scorcio di mare infinito, circoscritto in un’insenatura e con sullo sfondo un minaccio e affascinante vulcano. Eppure questo, tra i pochi altri luoghi in cui ho vissuto, insieme alla soleggiata ma più prossima Andalusia, è quello che più mi fa sentire a casa, tra una buca sul fondo stradale, la spericolatezza della gente alla guida e l’attraversare la strada cercando un dialogo visivo con chi è al volante. L’essere napoletano e averci vissuto in maniera continuativa i primi 22 anni della mia vita mi ha permesso di arrivare a Buenos Aires già allenato.

    Il resto lo fa la mia passione per il calcio e per Diego Armando Maradona, a cui l’Argentinos Junios ha dedicato il suo stadio e la cui immagine si ripete sui coloriti murales della Boca, dove il sentimento per il pallone è lo stesso che ho sempre percepito ogni qual volta uscivo dalla galleria di Fuorigrotta e in lontanza scorgevo il San Paolo.

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