La mia prima volta al San Paolo: chi tifa Napoli vince comunque

Nella nostra indagine emotiva all'interno del tifo azzurro, ecco la testimonianza di un'esordiente in Curva B. Ipnotizzata dai nostri tifosi e dal San Paolo, ci mostra un punto di vista inedito e puro. Anche su Paolo Tagliavento.
  • di Marie-Eve Ciparisse

    Terza volta allo stadio, prima al San Paolo. Dai racconti di Boris sullo stadio partenopeo e con la piccola esperienza del Marassi di Genova - dove siamo stati con i grandi Pia, Sandro e Andrea Parodi - mi immagino già la bella avventura che mi aspetta. L'impressione è quella di una gita fuori porta, mamme e bambini, venditori di sciarpe e maglie (ebbene si, da domenica possiamo aggiungerne un'altra alla nostra collezione, che ormai già basta per tre generazioni di tifosi), birra e patatine in quantità. E le frittate di Bernadette, che bontà.  Una volta dentro però mi rendo conto che ogni stadio è unico e a suo modo rispecchia la città e il suo popolo di tifosi. Anche il modo di viverlo è diverso. A Genova sentivo tremare la Gradinata Nord sotto i piedi, un rombo da far paura, come se tutte quelle persone fossero cellule di un corpo unico. Tutti contenti di essere allo stadio, ma anche un po' incazzati come solo i genovesi cantati da Paolo Conte sanno essere. A Napoli invece la sensazione è quella di essere in famiglia, lo stadio grande, aperto, bellissimo. Talmente bello che quasi mi convinco che dalla curva B la partita si veda meglio che dalla Nord. Solo dopo qualche ora mi ricordo che a Genova vedevo il campo come le luci intermittenti dell'albero di Natale, bandiera, azione, striscione, calcio d'angolo, gol...e io non l'ho visto. A Napoli invece vedo tutto nonostante vi siano bandiere immense e fumogeni per tutta la durata della partita, e mi piace un sacco. Si sente l' attesa e la speranza, mista a un po' di apprensione, come per un figlio che non sai che colpo ti possa far prendere. La partita inizia e per trenta minuti non sembra succedere nulla, il Napoli prova a far gol un paio di volte, la Fiorentina mai. Ad un tratto, fallo ed espulsione di Ghoulam, non è chiaro se a torto o a ragione, ma dalla mezz'ora il Napoli gioca in dieci. A quel punto l'arbitro diventa quasi il cruccio principale, almeno per me. Passa il tempo, il Napoli lotta strenuamente per difendere la sua porta e prova comunque a segnare, la Fiorentina incredibilmente niente... Dopo un paio di altre decisioni arbitrarie, nel vero senso del termine, parte un coro stranamente familiare: "Tagliavento, figlio di p...". In un attimo mi illumino, finalmente capisco qualcosa di calcio! È vero, non so riconoscere un fuorigioco, so a malapena cosa sia un assist e non ho ancora capito quante volte ci sia il calciomercato all'anno, ma una cosa la so, questo coro l'ho sentito a tutt'e tre le partite, le uniche tre partite che ho visto in vita mia, e per quel che ho visto hanno ragione. Mi unisco al coro. Il resto della partita è presto detto, il Napoli è stremato e la Fiorentina manda in porta la sua unica - e un po' triste - occasione di fare gol.
    Per la prima volta vedo una marea di tifosi applaudire la squadra che ha perso e mi emoziono un po'.
    Usciamo dallo stadio arrabbiati e delusi da questo calcio (io però nel mio intimo avevo capito qualcosa di questo sport ed ero contenta, almeno un po') e osservo la fiumana di persone davvero impressionante che ho davanti uscire dallo stadio, triste ma non arrabbiata. Sarà per quell'applauso finale, sportivo e liberatorio. Sarà che qui conta la maglia e l'impegno, non vincere a tutti i costi. E allora va bene così.
     

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