Eravamo io, Diego, Eric, Gianluca e Gianni Minà

Il nostro Errico Novi ha incontrato D10S a Roma, come mostrano i video che ha realizzato. Alla sede capitolina del Parlamento europeo. Questo però è la narrazione di un altro incontro, dal libro #Chevisietepersi
  • sentieriselvaggi

    di Boris Sollazzo - dal libro #Chevisietepersi - Il Manuale di chi tifa Napoli (ed. Fandango)

    Siamo onesti: il mondo ci conosce e ci ama per i nostri tifosi emigranti, unici (ricordate Stoccarda 1989?), e per aver avuto nelle nostre fila, per sette anni, il giocatore più forte della storia del calcio: Diego Armando Maradona. Straordinario nel bene e nel male, è amato e odiato nel mondo con la stessa inaudita forza. La sua vita personale e la sua carriera hanno vissuto cadute e resurrezioni, i mitici gol all’Inghilterra, il campionato del mondo regalato alla sua Argentina così come i due scudetti e la coppa Uefa al Napoli sono imprese che molti (rin)negano per via delle disavventure con la droga e per le sue posizioni politiche. “Non sarò mai una persona normale: tutti pretendono di giudicarmi, tutti parlano di me ma senza ascoltarmi. Io ho fatto del male nella mia vita, cose per cui non mi perdonerò mai, ma solo a me stesso, alla mia famiglia, alle mie figlie”. Maradona è un campione che ha sempre avuto il coraggio di confessare i propri errori, per poi poter mostrare anche quelli altrui. “Come mai hanno scoperto che prendevo cocaina solo dopo che ho eliminato l’Italia dai “suoi” mondiali del ’90?”. Pagò l’aver sbugiardato il Belpaese dicendo, prima della semifinale in cui batté gli azzurri, proprio al San Paolo. “Di Napoli chi si ricorda nei restanti 365 giorni dell’anno? Vi chiedono di essere italiani per una partita di calcio, ma non vi considerano tali”. Aveva ragione da vendere. Poi al mondiale successivo ci fu l’ignobile trappola dell’efedrina: Maradona doveva essere il traino di Usa '94, il suo ritorno era lo spot migliore. Ma non avevano fatto i conti con la sua sete di giustizia. Era l’unico a protestare contro gli orari vergognosi che mettevano a rischio la salute dei calciatori per favorire le tv, ad attaccare una competizione insensatamente organizzata negli Stati Uniti, assegnazione conquistata a suon di dollari.

    Per me e quindi per chi sta leggendo queste pagine Diego è semplicemente D10S.

    Per me lui è  un esempio, uno di famiglia, un idolo, una divinità calcistica e un'anima di sicuro ferita, ma grande e preziosa. Ha dato tanto al mondo, compresa la poesia di quel piede sinistro che ha saputo disegnare parabole impossibili, ha sofferto più di altri ed è stato ingannato da troppe persone. Il mio sogno è sempre stato incontrarlo, diventargli amico, conoscerlo. Dirgli quanto è stato importante per me. Maradona mi ha insegnato che da ogni caduta ci si rialza: che sia un difensore bastardo a romperti una gamba o la cocaina a corroderti dentro, la forza di volontà e il carattere ti possono portare a vincere anche dopo la peggiore delle sconfitte, a rimetterti in piedi anche dopo essere precipitato. Se ora non sono zoppo, dopo un brutto incidente, lo devo anche a Diego. E a mio padre: lui, conoscendo la mia follia azzurra, mi ricordò come il Pibe de Oro recuperò dopo l'intervento killer di Andoni Goikoetxea. Giocava ancora a Barcellona, su quel suo piede magico pesò per il resto della carriera un'invalidità del 25% della caviglia. Se ho sempre creduto di poter vincere senza aiuti e spinte nella vita, lo devo a chi, come diceva Omar Sivori, era diventato il migliore del mondo partendo da zero. E forse anche meno, contando che Madre Natura gli ha dato un sinistro straordinario ma anche un fisico penalizzante. “Chi è più forte tra Pelè e Maradona?”. L'eterno dilemma calcistico El Cabezon lo risolveva con una battuta illuminante. “Sono uguali, come Fred Astaire e Ginger Rogers. Ma tenete presente che lei faceva tutto con i tacchi a spillo!”. A lui, infine, devo la mia insofferenza verso l'autorità, la voglia di essere libero oltre ogni convenienza e ogni convenzione. Uno dei giornalisti argentini che lo scoprì per primo diede di lui una descrizione geniale e romantica che lo racconta meglio di pagine e pagine di inutili parole. “Se Diego fosse a una cena di gala con uno smoking bianco e gli lanciassero una palla ricoperta di fango, lui la stopperebbe di petto”. Appunto. Come fai a non considerarlo una divinità? Inutile dirvi che sono totalmente ateo ma alla sua Chiesa, ovviamente, mi sono affiliato. Gli ho visto fare troppi miracoli in campo per non poter credere nella sua Potenza.
    Ogni libro che parla di Lui, lo compro. Ogni dvd, vhs, audiocassetta, vinile che si ispira anche lontanamente a Lui, dev'essere mio. Anche se i gol sono sempre quelli, e li ho visti già migliaia di volte. Uno dei momenti più belli della mia vita è stato trovare il dvd di Maradona by Kusturica, opera meravigliosa di calcio, umanità e cinema, e trovarci una mia frase. Almeno su quella copertina, io e Diego rimarremo sempre insieme.

    E proprio per quel film, io lo ammetto, l'ho pedinato. A Cannes. Scoprii dove alloggiava, mi travestii da cameriere e fotografo, da buttafuori (ero poco credibile, lo confesso) e da barman. Passai ore a cercarlo o aspettarlo. L'ho sfiorato così tante volte in tre giorni che alla fine, quando mi vedeva, mi salutava. Riconosceva il mio viso, anche se si interrogava su chi fossi. Ma ogni volta, a pochi centimetri da Dio, mi annichilivo, mi mancava il respiro e la parola, ero così emozionato che non riuscivo neanche a emettere un gemito. Fino al giorno della conferenza stampa. Sarebbe partito poche ore dopo, era la mia ultima occasione. Ed era la peggiore. Troppa gente, e Diego, insolitamente buio e poco vivace, in mezzo a quella folla, negava autografi e fotografie, stanco del bagno di folla aggressivo che subisce a ogni uscita pubblica. Io lo guardo, ho gli occhi lucidi. Lo vedo scappar via. Penso alla mia compagna, Marie-Eve, che al calcio si appassiona solo agli europei, ai mondiali e alle Olimpiadi, che mi dice, con voce inusualmente minacciosa “devi parlargli”. Lei che conosce il mio cuore meglio di me, sa cosa significa Diego Armando Maradona nella mia vita. Lo ha capito leggendomi dentro, pur non condividendolo. A lei devo, di sicuro, la follia di quei secondi. Al suo amore che l'ha portata in un territorio a lei sconosciuto per farmi coraggio e regalarmi secondi indimenticabili. E così, davanti ai miei compassati colleghi, senza rendermi conto, urlo. “Diego, grazie! Voglio solo stringerti la mano!”. Si gira. Cerca con lo sguardo qualcosa, le due guardie del corpo si allarmano. Le dribbla da par suo, salta anche il direttore del Festival Thierry Fremaux, fa un cambio di passo e torna indietro. Si fa largo nella folla, mi punta. Io mi giro. “Forse c'è Careca dietro di me” penso. Ma lui cerca me. Vuole stringere la mano di quel pazzo, che non voleva souvenir o santini, ma solo ringraziarlo per la gioia ricevuta in tanti anni, vuole mostrargli il suo affetto perché tra tanti vampiri aveva trovato uno come lui. Per vivere un gesto “vero”, semplice e istintivo. Gli dissi “mi hai cambiato la vita”. Lui rispose “amigo, la vita o te la cambia Dio, o te la cambi da solo”. Io gli tengo la mano tra le mie, la stringo forte. Tento una battuta, goffa. “Dio, appunto, tu”. Ride, anche la sua mano sinistra mi stringe. “Forza Napoli”, mi dice. E se ne va. Ci eravamo riconosciuti, due che non venivano dalla borghesia comoda di tanti colleghi, suoi e miei, ma dal basso. Una stretta di mano, non uno scatto o una firma. Io capii che Diego era quello che avevo sempre sognato: una persona vera, sincera, sicuramente imperfetta, ma piena d'amore, umanità e verità come l'avevo immaginata. Uno che rompe il protocollo se capisce che sei come lui, fuori dal circo dell'ipocrisia. Piansi a lungo, dopo, senza vergogna. Forse la mia paura era dettata dalla possibilità che potesse deludermi. E invece quel fratello maggiore lontano, con un piccolo e sentito gesto, mi aveva detto che sì, era proprio come l'avevo sperato.

    E me l'ha confermato anche Gianni Minà, a Berlino, parlandone come un mito e un amico (e questo immenso giornalista, peraltro, è il motivo per cui io faccio questo lavoro: volevo essere come lui), ed Eric Cantona, che sempre in Costa Azzurra mi disse cose di lui meravigliose, aprendomi una finestra sulla loro amicizia. Un sentimento che l'ex numero sette dei Red Devils custodisce gelosamente, su cui mi ha imposto la riservatezza – perché nessuno dei due ama autoincensarsi – e che confidò a me, un estraneo, forse perché capì, anche lui, la forza e la sincerità dei sentimenti di un tifoso che nel suo sport, nella sua squadra proiettava, come loro due, un'idea diversa di mondo, un ideale e non solo qualche calcio ad un pallone. Il football, diamine, non è solo uno sport: è poesia, politica, sentimento, rivoluzione, metafora, epica, etica, estetica. Racchiude tutto in 90 minuti, con i suoi simboli e le sue regole, con la sua capacità di fotografare e sintetizzare ciò che siamo.

    Ecco perché mi piacerebbe raccontarvi anche di Gianluca Grava. Ma lui, potrà sembrare incredibile, non sono riuscito a incontrarlo. Maradona è il più grande calciatore del mondo, Gravatar – questo è il suo geniale soprannome, coniato da Raffaele Auriemma - è il difensore che ha fatto del superamento dei propri limiti la sua forza. In un grafico, sarebbero agli opposti. Ecco, per me sono invece fratelli. Gianluca mi ha commosso entrando in Champions League, rinascendo come calciatore solo per la forza che gli ha dato questa maglia. Ama Napoli e il Napoli, tanto da vederlo in curva quando non è convocato, tanto da recuperare da un infortunio terribile e resistere a un'accusa ingiusta e infamante (demolita, per fortuna) legato al calcioscommesse. Se Maradona è D10S, questo scugnizzo di Caserta è l'uomo in cui mi immedesimo, il mio eroe proletario. Chi sa arrivare in alto perché ha il coraggio di andare oltre se stesso, di dare il 1000% e sopperire a un talento limitato. Gianluca Grava è uno di noi: come tifoso e come uomo. Come Maradona viene dal basso. Noi, sì, possiamo capirci. E allora puoi aver fatto 115 gol con la maglia azzurra come Dieguito o due come questo terzino destro che non molla mai, ma nel nostro armadio degli affetti saranno sempre vicini. Diego nel posto migliore, Gianluca poco dietro. Insieme a Marek Hamsik, magari: uno che mentre l'amico Edinson svicola le domande sul calciomercato e il suo allenatore Mazzarri finge di essere indeciso sul suo futuro, desidera solo la nostra fascia da capitano, non può che essere nostro fratello. E che non la indossa solo perché Paolo Cannavaro la e ci ama più d'ogni altra cosa tanto da scendere, giovane e promettente, dalla A alla B. Per noi.
    Senza togliere nulla ai Cavani e ai Lavezzi, che pure adoriamo, questi quattro sono altra roba. Perché conta la maglia, solo quella. E chi l'ha amata, onorata, sofferta e indossata come una seconda pelle merita il posto migliore nei nostri cuori azzurri. Per gli altri, la nostra passione e il nostro sostegno, le nostra urla e i nostri applausi, i nostri cori e il nostro calore non mancheranno mai. Fino a che non ve ne andrete (o ve ne siete andati). Per poi pentirvene. Perché tutti ci rimpiangono, sempre.
    Nessuno che sia duro e puro come noi smette di amarci. E questa è la nostra più grande vittoria.

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