“Esci da questo corpo, ovvero salvate il soldato Walter”
di Enrico Ariemma
Noi siamo il Napoli di Benitez. Lo dico da protofirmatario di un manifesto che ho in seguito rivisto in prospettiva assai critica, per riabbracciarlo, infine, con tanto di pubblica abiura Galilei-oriented. Il mio entusiasmo per gesti dall’alto valore simbolico come la visita al British Museum con al seguito la squadra aveva subito scalfitture non secondarie quando Rafa, di fatto non rispondendo a precisa domanda in conferenza stampa, aveva optato per il ricorso, altrettanto ricercato e colto, a Esopo, con figli, asini e contadini. Sia come sia, oggi, conti fatti, con una stagione dal profilo ormai definito, positiva sebbene non trionfale, da completare con un trofeo prestigioso e di consolazione insieme, proclamo l’orgoglio di sentirmi parte (laica e critica) del Napoli di Rafa con la consapevolezza ormai stabilizzata di trovarmi al primo anno di un progetto che può regalare solo futuro, a breve medio lungo termine. Rafa, un uomo meraviglioso, capace di gestire con fiducia pacata ma ferma anche gli episodi di adrenalina a diecimila. Coraggioso, non guascone, consapevole, non temerario, didascalico nell’approccio al calcio e alla vita. In poche parole, un uomo che spiega. Spiega e palesa l’intenzione di marcare un punto di discontinuità fortissima col passato, forse non soltanto calcistico. Ha cercato sin dallo scorso agosto l’osmosi preventiva con la città, con l’ambiente. Appena giunto ha visitato Palazzo reale, ha cercato a Napoli radici ispaniche e tracce di contaminazione culturale. Ci mette la faccia ed esigerà che ce la mettano tutti. Calmo e deciso, ha plasmato la squadra con l’efficacia (invero altalenante) di un aforisma che non ammette repliche. Un obbligo, per tutti, saperselo meritare, uno così.
Premessa lunga, forse banale, per me contestualmente necessaria. Rimango dell’idea che non si diventa uomini senza un rapporto sereno col proprio passato, che non si costruisce il presente senza comprendere e fare propria la Storia, che non si progetta il futuro se non riflettendo su ciò che è stato, con i necessari pregiudizi, ma “sine ira et studio”, come recita il sempreverde statement di Tacito. Senza rabbiosa acrimonia, senza schieramenti preventivi, senza passioni di parte a spartirsi, divorandoli, i residui di buon senso ragionativo.
Perché, incredibilmente, un anno dopo a Napoli esiste (meglio, sussiste) un problema-Mazzarri (meglio, il fantasma-Mazzarri).
E dunque, diciamola tutta. Un anno fa, di questi tempi, eravamo sotto la guida di un tecnico, beninteso, al quale bisogna essere grati per il suo illuminismo (sì, illuminismo) un po’ convinto e un po’ inconsapevole, ma al quale, tuttavia, meno si può perdonare l’incapacità di entrare in sintonia con la città, di coglierne integralmente (e magari goderseli) gli umori: un uomo per il quale ogni impresa era un miracolo, ogni sconfitta era una disdetta, ogni svista era una congiura; con quel retrogusto celato di supponenza in virtù del quale proiettava responsabilità proprie, ed evidenti, su qualunque malevolo perfido infingardo agente esterno, sull’ambiente, sulla sfiga che benissimo ci vede, su pali e traverse, sulla forfora, sul tartaro.
Signori, Walter Mazzarri.
Walter Mazzarri sembra uscito da un romanzo qualunque del decadentismo maturo, un uomo convinto in teoria e semi-inetto nei fatti. Ecco, ci sono: Mazzarri è Ulrich Anders, il protagonista de “L’uomo senza qualità”. Convinto di essere destinato ad alte imprese, abbandona la squadra per impegnarsi in un altro progetto. Un progetto impegnativo solo sulla carta: va a ricostruire le macerie lasciate all’Inter da Stramaccioni, a far da badante a una rosa invecchiata (di quelle che lui predilige) e garantendo il minimo sindacale di un piazzamento migliore del nono posto. Il tutto dopo aver dichiarato per una stagione intera di valutare l’ipotesi di un anno sabbatico, giurando e spergiurando di non avere allacciato contatti con altre squadre, peraltro reiterando pantomima già recitata un paio d’anni prima, con uscite scriteriate anche alla vigilia di partite importanti; e senza aver mai chiarito i motivi dell’abbandono, che oggi sembrano evidenti (incapacità di gestire attese elevate in piazze esigenti dopo un secondo posto difficilmente migliorabile).
Dopo nove mesi a Milano, quell’“il calcio è un gioco e tu sei un uomo fondamentalmente triste” che un inarrivabile Paolo Sorrentino mette a epigrafe di un botta e risposta tra un presidente e un allenatore è diventato la sua epigrafe funeraria (calcisticamente funeraria). Icona scomposta, imbestiata, deprivata di qualsiasi rigurgito di self control. Il Mazzarri di Napoli era quello dell’orologio stuprato dall’indice destro. Quello di San Siro è un conte Ugolino redivivo incapace di sollevare la bocca dal fiero pasto di una bottiglia di Lete, è un uomo che smania in panchina al pareggio del Livorno, un relitto immortalato da obiettivi impietosi che, avrebbe detto Cioran, si sfinisce come un epilettico nelle sue crisi.
To sum up.
Mazzarri (c’era lui, non un altro) ci ha portati fino a Benitez. Ha fritto il pesce con l’acqua. Ci ha dato la Champions con Pazienza e Aronica, ha stracciato Chelsea e City con Gargano e Cannavaro. Ha scoperto il ruolo di prima punta per Cavani: l’acqua calda, ma intanto ha cominciato lui. Giocava “male” forse, ma la squadra aveva carattere. Il suo quadriennio è agli atti e deve essere valutato serenamente: un bel progetto italiano di crescita graduale, a tratti intermittente. Il mio bilancio personale non è affatto negativo. Però. Però ci ha trattato male, via. Arrivismo e ambizione, unitamente a una tecnica comunicazionale da dislessico cronico, hanno creato disappunto, rabbia, e, diciamolo, odio. Ho sofferto anche io, e non poco, temendo, prima di trasfondermi in Rafa, che mi sarebbe stato inflitto il primo Pioli o il primo Sannino disponibile.
Insomma: una roba che ha incancrenito. Una ferita che il tempo, grande medico, pare impotente a sanare. Non riesco a spiegare diversamente, se non con la categoria di coazione a ripetere, l’attesa spasmodica, opprimente, ossessiva che distoglie il tifoso napoletano medio, e spesso bene illuminato, da qualsiasi altra razionale e meditata attività quando gioca l’Inter. Dirò di più: il “pariare in cuollo” a Mazzarri, che, diciamolo, ci fa sganasciare quando viene raggiunto al novantaseiesimo, è solo una componente, sapida e gustosa, di un’umanissima attenzione particolare verso chi ti ha tradito e, scoperto, nega tutto, soprattutto l’evidenza. Quel che rimane, tuttavia, è sindrome ossessiva, e con le sindromi non ci puoi far nulla. Il tradimento: quando si è traditi, immagino, è difficile archiviare d’improvviso un lungo amore (lasciatemi citare Catullo), solo gli deì possono strappare dal cuore l’ulcera purulenta che consuma. Si augura tutto il peggio alla controparte, ma non la si oblitera, la sua immagine si para davanti ad ogni istante, le vuoi assai meno bene, per te non vale nulla, meno di zero, ma si continua, di mera, brada, animalesca pancia, a desiderarla.
È quello che avviene con Walterone nostro.
E questa cosa, storto o morto, si chiama rosicare, un romanismo icastico ed espressivo: rabbia, rancore, impotenza e incapacità di trovar pace. L’altra faccia dello sberleffo da branco, sberleffo dietro al quale nemmeno io mi nascondo, è però la percezione che ci si rode lentamente: “La fiamma divora le midolle”. È il siderale opposto dell’indifferenza, è l’antipodo semantico e ideologico di un sano “comm’ ‘o schifo, a chilo”. Schifare è proprio altro: schifare è atteggiamento che conduce all’oblio, alla congiura del silenzio. Invece ci muoviamo nei dintorni di quel morbo indefinibile così genialmente descritto dall’Adriano di Marguerite Yourcenar: “Se un essere solo, anziché ispirarci tutt’al più irritazione, piacere o noia, ci insegue come una musica e ci tormenta come un problema, se trascorre dagli estremi confini al centro del nostro universo”. Ecco i termini della questione. E da questa deriva, comica e tragica, non è immune neppure qualche illuminato apostolo della pedagogia del tifo, di coloro che ogni tanto ci ammoniscono a crescere, a emanciparci, a scioglierci dai legacci dei “devi vincere” e disfattismi vari. Misteri.
E io, col peccato originale di essermi liberato del passato in tempi accettabili e con meccanismi di elaborazione lineari, ho pure la pretesa di voler parlare del Napoli, dopo questo Parma-Napoli...
Salviamolo almeno dal nostro odio iperrosicante, il soldato Walter. Ha già sul groppone il gravame del sosia del Gangnam Style. Condanniamolo, se davvero ci ha schifato, all’isolamento, alla noncuranza, alla solitudine. Mazzarri non è la Rube. È cosa diversa. L’odio, e il rosicare che ne consegue, è una componente inconscia della vedovanza, lo capite? “Esci da questo corpo”.
Abbiamo Rafa. Ci siamo rifatti una vita.