Bianchi e Careca: i veri conquistatori della nostra Europa

Ottavio fa 70 anni domani, Antonio de Oliveira Filho detto "Caré, Caré, Caré tira la bomba, tira la bomba" 53. E noi ve li raccontiamo, a partire da quella coppa Uefa tutta loro.
  • di Boris Sollazzo

    Me lo immagino così il 5 ottobre di 25 anni fa. Ottavio Bianchi a un passo dai suoi 45 anni, il bomber Careca ne ha appena compiuti 28. Il giorno dopo si va a Salonicco, in uno degli inizi stagione più deliranti del dopoguerra (il campionato sarebbe iniziato la domenica successiva, fine agosto e settembre erano stati dedicati alla Coppa Italia più lunga della storia, con ben due gironi in cui vidi Diego in un mitico Napoli-Barletta). All'andata, a Napoli, si era strappato un 1-0 di rigore. 
    Ottavio, solitamente taciturno, avvicina il numero 9. "Domani dobbiamo segnare subito, sarà una bolgia". "Ci penso io, mister, le faccio un regalo io domani". E il 6 ottobre, in uno stadio che a vederlo dalla tv della mia cucina, pure in bianco e nero capivi che i fumogeni erano rosso fuoco, si trovarono, i due, in un girone infernale. Ma dopo un quarto d'ora, con un gol di classe e opportunismo, Antonio la mette dentro. Sarà poi dura lo stesso, pareggeranno pure i greci. Ma quella, nella mia memoria, rimane la partita più difficile di quella coppa Uefa. Il centravanti sorrise di quel gol, guardò l'allenatore che quel giorno compiva gli anni. Si erano fatti un bel regalo, proprio loro due che l'hanno prima avevano perso uno scudetto che avevano già vinto. Uscirono insieme da Napoli-Roma 1-2. Careca aveva segnato uno dei suoi gol più belli, ma non servì. Su quella partita, su quel finale di stagione girano leggende nerissime: quel brasiliano sempre sorridente e tranquillo litigò con due compagni, su quel campo, quel giorno, e lo fece aspramente, dopo due gol sbagliati. Lui che aveva sempre comprensione per gli errori, propri e altrui. Non lo avevamo mai visto così. Forse aveva capito. Quel gol in Grecia, sotto la gragnuola di sassi e bottigliette dei tifosi avversari (una prese il povero Carmando), significava molto per entrambi. E per Diego, ovvio, che aveva imbeccato l'amico e sodale d'attacco con quel filtrante vellutato che era un marchio di fabbrica: piede sotto, palla che si alza, il numero 9 - l'unico che parlasse veramente la stessa lingua del Diez - che scatta. Gol, a incrociare. A volte, ricordo bene, cominciavi a esultare alla fine del passaggio: non ricordo una di quelle occasioni andate sprecate. Si volevano bene i due, parecchio. Nella finale di quella coppa Uefa, a Stoccarda, confezionarono un capolavoro, tra cambi di passo, inserimenti e lezioni di contropiede. I loro abbracci, stupiti e felici, sono il marchio di quel Napoli da sogno: due bambini esaltati dalla propria classe, dalle loro invenzioni, da un'intesa naturale.

    Ma torniamo ad Ottavio e Antonio. Perché quell'unico trionfo europeo è soprattutto loro. Senza nulla togliere a Diego come all'anti Lipsia Francini, alle reti di Carnevale come ai gol sbagliati da Carannante, quell'Uefa passò da loro. E non a caso entrambi diranno addio a Napoli (Bianchi per la seconda volta) dopo aver provato a portare gli azzurri in Europa, nel 1993. Era l'ultimo anno di Careca con la nostra maglia, il mister aveva sostituito Ranieri. Non ci riuscirono, anzi in quella conquistata l'anno prima, a Brema, la Gazzetta maltrattò l'attaccante per la disfatta subita. Lo chiamò coniglio, la rosea, come sempre feroce con i partenopei e come sempre con il mirino sui suoi beniamini. 
    Fui felice per quell'Uefa, nel 1989: valeva più di una Champions League, il livello era altissimo (ci andavano dalla seconda in giù dei maggiori campionati: noi in semifinale trovavamo il Bayern, il Milan in coppa Campioni di quei tempi trovava Benfica e Steaua) e quel Napoli meritava di farsi ammirare fuori dai confini. Careca diede tutto in quella competizione infinita, a 64 squadre. Forse la rabbia dell'anno precedente, forse per l'irridenza con cui fallì il 2-0 al San Paolo contro il Real Madrid, nel primo turno della nostra prima coppa dalle grandi orecchie. Lui la toccò troppo piano e Buyo la parò di culo. No, non è un gioco di parole, è tutto vero.

    Fatto sta che la vinse da solo o quasi. Era scatenato quell'anno: ci fu la tripletta a Torino nel mitico 3-5, doppiette a ripetizione, vittorie clamorose (dall'8-2 al Pescara al 4-1 al Milan, con lui a far da mattatore). Perdemmo lo scudetto contro l'Inter dei record del Trap, lui sfiorò i 20 gol in campionato, alzammo la Coppa Uefa. E tutto nacque in quei due giorni, in quel primo turno. Si fecero un regalo di compleanno, ci dissero che l'orrore dei 12 mesi precedenti non l'avremmo rivissuto.

    Ho amato Ottavio Bianchi come poi, forse, solo Edy Reja. Come Donizetti nordici e musoni, ma che amano tuttora Napoli oltre ogni limite. Lo ricordate il mister con Galeazzi che quasi lo assale in quel 10 maggio 1987? Bisteccone urla, esulta, quasi piange. Lui risponde, con una flemma folle rispetto al carnevale di Rio che gli si scatena attorno "sì, abbiamo fatto una buona stagione". Anni dopo lo intervistai e mi disse che era l'unico modo per non rovinare tutto, far da pompiere, tenere quell'aplomb che erroneamente lo faceva apparire antipatico. Tornò a Napoli nei momenti difficili, si inventò Policano seconda punta, da direttore tecnico prese Lippi, che ci diede le ultime gioie. Sapeva quando non far allenare Maradona e come motivare quel campione, persino gareggiando con lui nei palleggi con i limoni (e pare fosse bravo l'allenatore, Diego si impegnava parecchio in questi duelli improvvisati). Ha incoronato Mazzarri suo erede: ma a me Ottavio (come Edy) manca molto di più.

    Ho sentito definire Cavani il nuovo Careca, peraltro. Ma quei 96 gol di Antonio non sono comparabili ai 100 e rotti di Edinson. Anche se il primo li ha fatti in sei anni e il secondo nella metà del tempo. Antonio è rimasto dopo il crollo, ha fatto segnare pure Fonseca e Silenzi, ha onorato la maglia quando si cominciava a fuggire. Se n'è andato perché non ha sentito, a un certo punto, l'affetto che meritava e gli dovevamo. E non fu solo la Gazzetta, ma anche noi. E andò in Giappone, per poi tornare nel suo Brasile. Moggi, nel 1987 lo prese al San Paolo con una manovra di mercato geniale (a meno di tre miliardi!) e forse non immaginava di prendere un campione vero. Caré, Caré, Caré era il giocatore più forte del mondo, dopo Diego. Anzi, lui amava dire "che al primo posto c'è Maradona, al secondo Diego, semmai io sono al terzo". Era generoso quel bomber che faceva solo azioni da cineteca, che segnava solo eurogol. Quelli facili li lasciava agli altri: e se Carnevale o chi per lui non c'erano a farli, niente da fare, non la si buttava in rete. E l'ombra di Diego non gli dava noia. Eppure gli è costata parecchio: veniva costantemente sottovalutato, gli venivano preferiti i Van Basten perché lui, di fronte al Pibe, appariva come un comprimario. E ci giocava con questo ruolo. "Lo schema Careca lo conoscete? - disse una volta ai giornalisti- Come no? Passare la palla a Diego e poi correre tutti ad abbracciarlo". L'ho amato tanto, lo vorrei incontrare e dirgli che mi ha commosso nella sua penultima stagione: 15 gol fatti per amore di quella maglia che è ancora una seconda pelle per lui. Giocò con il coltello tra i denti in una squadra non più grande. Da vero napoletano.

    Non mi mancherà Cavani, ma mi manca ancora Careca. Non per i trionfi, ma per gli occhi, l'amore per noi tifosi, i gol, la fantasia, l'umile presunzione che lo faceva sedere alla destra del Padre e che allo stesso tempo gli imponeva di toccare la palla e pensare le azioni come noi non avremmo neanche mai immaginato. E neanche gran parte dei suoi compagni.

    Auguri Antonio e, per domani, auguri Ottavio (nella foto del pezzo, scudetto e coppa italia sulla maglia ricordano te e quel tuo capolavoro). Grazie per quella coppa Uefa. Fu soprattutto vostra, ma da quel giorno a Stoccarda, grazie a voi, è anche mia.

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