Dnipro-Napoli e un fallimento che è anche colpa di noi tifosi
di Errico Novi
Abbiamo perso tutti. Anche noi tifosi. Possiamo passare tutto il tempo che vogliamo a discutere dei gol irregolari del Dnipro, di Collina pagato dalla Federazione ucraina, di Platini che non ci vuole bene. Ma rischiamo di perdere di vista il vero problema. Quello con cui il Napoli deve fare i conti ora, al termine di una stagione molto complicata, scandita da un momento topico, la Supercoppa, e tante delusioni. Dobbiamo discutere del modo di vivere il calcio, che a Napoli è cambiato. Non è una questione secondaria, marginale. Perché rialzarsi dopo una sconfitta come quella di Kiev è già molto difficile di suo. Rischia di diventare impossibile con il clima che, da un annetto ormai, si respira attorno al club.
Siamo famosi addirittura in tutto il mondo per essere una delle tifoserie più calde, più appassionate. Ma è una fama immeritata, ormai. Da tempo al San Paolo si respira una strana aria, da inquisizione permanente. Sul banco degli imputati c’è soprattutto De Laurentiis. Colpevole di non aver completato la squadra della scorsa stagione con gli acquisti che l’avrebbero resa più forte. E d’accordo, della ridicola campagna acquisti di agosto 2014 possiamo discutere quanto vogliamo. Ma perché questo rimpianto deve arrivare al punto da svuotare lo stadio? Com’è possibile che il Napoli sia sceso al 6° posto come numero di spettatori, con una media che si aggira a stento attorno alle 30mila presenze a partita? Dov’è finito il pubblico che si infuriava e contestava ma, in passato, assicurava il pienone persino quando al posto di Higuain c’era Claudio Pellegrini?
Non basta la storia della pay tv, del salotto di casa più comodo delle gradinate. È una spiegazione parziale. Napoli ha uno strano atteggiamento verso la squadra. Di distacco, di sottile disprezzo. Si diserta lo stadio, è la rivendicazione di molti, perché De Laurentiis non ci merita. Un modo per punirlo, per manifestare con questa singolare forma di “aventino” il disappunto verso il presidente. Ma è una storia che convince fino a un certo punto. Napoli è cambiata troppo, da questo puto di vista. E tanto sdegno non si spiega, alla luce di quello che è diventata la città oggi. A Napoli si vive male. C’è sempre meno lavoro, si percepisce sempre più un velo opaco di declino e apatia, che mette in fuga i giovani, spinge quelli che vivono in certi quartieri a cercare nel crimine organizzato la via per la sopravvivenza, spegne la speranza e uccide il futuro. In mezzo a questo panorama non certo rassicurante, il Napoli calcio è o non è una delle poche cose che funzionano? Ecco, come si fa a prendersela con De Laurentiis, Benitez, la squadra, quando è tutto il resto che va in rovina? Sembra che noi napoletani cerchiamo un bersaglio alternativo per la nostra rabbia, in modo da non dover fare i conti con i problemi veri. Viviamo in un posto dove tutto precipita e marcisce, eppure il problema non è il lavoro che non si trova o il centro storico che si sgretola, ma la squadra. Vogliamo scuoterci da questo inganno, da questa distorsione, o vogliamo ridurre in briciole anche l’unica cosa che bene o male tiene alto l’onore della città? L’ultimo simbolo a cui aggrapparci per far rinascere la voglia di riscatto?
Ecco, dopo Dnipro-Napoli, con la Champions molto probabilmente sfumata e con la colonna spagnola del club in fila verso l’addio, dobbiamo fare i conti con questo. Con il clima che noi stessi abbiamo creato attorno al Napoli. E chiederci se continuare a crogiolarci nel nostro capriccioso rancore verso De Laurentiis non rischi di compromettere ogni possibilità di avviare un nuovo ciclo. Nel calcio i giocatori passano, anche i più grandi, è l’appartenenza che resta. Se distruggiamo quella, non avremo manco più un falso scopo contro cui scagliarci per dimenticare le rovine della città.