C'era una volta Maradona
di Francesco Pacifico
Maradona è stato un uomo di potere. Talmente potente da poter rifiutare il corteggiamento di Agnelli e Berlusconi, gli uomini più ricchi del Paese. Talmente forte da vincere (da solo) uno scudetto destinato alla Juve e un mondiale promesso al Brasile. Talmente compromesso con la politica e la camorra da dover scappare da Napoli. Proprio come si confà a un vero capopopolo. Non la patetica figura che da qualche giorno stanno trotterellando tra sagre di Paese e studi televisivi. È vero che a vent'anni si è rivoluzionari e a cinquanta i vizi devono conciliarsi con gli alimenti a ex mogli e figli, i risparmi per la pensione e le spese mediche. Ma il Maradona che è tornato in città non ha nulla a che vedere con il principe della nostra infanzia. Che era potente proprio perché trattava tutti - politici (che allora contavano), imprenditori, poeti, puttane, lazzari- allo stesso modo. Era l'emblema spensierato e tronfio di una città che, spensierata e tronfia allo stesso modo, si sentiva capitale nazionale. E non si perdeva dietro le sovrastrutture della politica e del mondialismo - nel 1992, dopo essere stato ospitato alla Cattedral da Pablo Escobar, ammise di non averlo riconosciuto perché non leggeva i giornali e non si informava - ma incantava il popolo perché era un artista. Quello a cui stiamo assistendo da giorni non è un omaggio, ma lo sberleffo che nel mondo borghese tanto odiato da Diego si riserva ai parenti decaduti o ai vecchi storditi. Ancora più grave perché il main stream cittadino lo usa per illudersi di essere tornato ai fasti di un tempo e alla frivolezza. Senza neanche risparmiarci sopravvissuti del nostro passato come Gianni Minà. Il Maradona di un tempo se lo sarebbe preso il San Carlo, non avrebbe avuto bisogno di essere invitato. Non avrebbe lanciato appelli di plastica contro la droga e la violenza. Non avrebbe fatto la pace con Ferlaino o si sarebbe ridotto a fare - lui, il capitano - l'uomo immagine di De Laurentiis. Se ne torni a Dubai, se deve vivere in una città di porcellana. Perché Napoli, nonostante la retorica che ci affoga e ci accompagna dai tempi di Bassolino a quelli di De Magistris - non è un parco giochi.