Il 10 maggio 1987 e questa nostra fottuta paura di festeggiare
Errico Novi
Non è vero che eravamo pronti. Non lo siamo neppure oggi. Trent’anni dal 10 maggio 87, ma non è cambiato nulla. Siamo storditi adesso come allora. Ieri era la gioia, oggi uno strano smarrimento. Increduli in quel giorno indimenticabile, ma almeno travolti dalla realtà, spiazzati trent'anni dopo dal ricordo. Tanto da discutere: ma dobbiamo festeggiare o no? E certo che si deve festeggiare, si dovrebbe, si doveva. Ma non ci riusciamo. Siamo sempre gli stessi: non crediamo di meritare le vittorie, quindi meglio non celebrarle. Chi lo fa, come il tenace Peppe Bruscolotti, passa per un testone un po’ polemico che vuole per forza sputtanare quel cinico anaffettivo di De Laurentiis.
Non è normale prenderla così. Ma è tipicamente nostro. Non raccontate la favola della città che aveva disegnato Maradona su ogni accendino e ammennicolo possibile prima ancora che atterrasse al San Paolo. Non c’entra nulla. A noi la poesia – perché le parrucche “argentine” e Maradona è megl’e Pelé sono poesia pura, punto – ci è sempre venuta benissimo. È quando si tratta di organizzare la vita quotidiana che ci facciamo prendere dal panico e preferiamo improvvisare. O arrangiarci, come dicono quelli che hanno capito tutto di Napoli anche se non ci hanno mai messo piede.
Perché non ci prendiamo quello che è nostro? Perché non si è mobilitata una bella parte di città e ha fatto in modo che il 10 maggio del trentennale assomigliasse a una festa? Perché ci deve provare solo un drappello di irriducibili, giocatori e capitifosi – onore a loro – costretti a rifugiarsi al San Mauro di Casoria per organizzare una partitella? Nessuno mi toglie dalla testa che l’idea di averlo vinto, quel tricolore, ci fa paura. E invece prendiamocelo perché ce lo meritiamo, ce lo meritiamo ancora. Non è vero che è stato un evento irripetibile e il Napoli straordinario di questi anni lo dimostra.
Ecco, il Napoli. Quello di oggi. Ha le sue “responsabilità”, in questa rimozione. Si è distratto, non ha voluto ricordarsi dell’evento, rinvia tutto a un'improbabile celebrazione postuma, insensata come la scusa dei giocatori da non esporre a divagazioni. E chi ha detto che il quasi sessantenne Bruscolotti doveva vedersela con Diawara, che può essere suo nipote? Bastava il solito revival, una cosa fatta come si deve, come due anni fa la Lazio ha celebrato lo scudetto del ’74. Nessuno mi toglie dalla testa che al Napoli di De Laurentiis, straordinario da tanti punti di vista, manchi un tocco di cuore. Un po’ di legame con le radici profonde della città. Una figura che sappia congiungere la splendida realtà di oggi con il Napoli del passato. Non ci sarebbe nulla di cui vergognarsi, a tenere vivo quel legame. E invece manco a palarne. Saranno le offese ingiuste, sicuramente immeritate e senza senso, che De Laurentiis ha dovuto sopportare in questi anni, si sarà incattivito: inutile discuterne com’è inutile mettersi nella testa degli altri. Però è un peccato tutto questo pudore che dalle parti di Castelvolturno diventa freddezza.
Tutti hanno diritto di avere il proprio rapporto con i ricordi, compresi quelli belli, celebrare e ricordare non è obbligatorio. Però a un’obiezione voglio rispondere. Tanti amici dicono: perché noi dovremmo commemorare il primo scudetto invece di pensare a vincere i prossimi? Perché ora non ce lo ricordiamo più, forse, ma per cucirci addosso il primo tricolore aspettammo sessant’anni. E non fu un caso. Quella lunga attesa sembrava la conferma che non potevamo meritare nulla di buono, che eravamo destinati alle occasioni perdute e all’incompiuto. E invece, grazie a Diego e agli altri Nostri Indimenticabili Eroi, scoprimmo che non eravamo gravati da alcuna condanna . Uno striscione di quei giorni magici lo spiega secondo me persino meglio del mitico #chevisietepersi: “Je pensavo ca murevo e stu juorno nun ’o verevo”. Non ci potevamo credere, con le lacrime agli occhi. Ma adesso, dopo trent’anni, crediamoci finalmente. Ci meritiamo il meglio, come quel giorno là.