Napoli-Manchester City, quante analogie con la gara di stasera!
Due anni fa. Era la quinta partita del girone. Allora come ora ci giocavamo tutto contro una corazzata di campioni. Successe il miracolo, ci fu la partita perfetta. Che ricordiamo con le pagine di #Chevisietepersi- Manuale di chi tifa Napoli del nostro Boris Sollazzo.
22 novembre 2011 – Il terremoto Edinson
Partimmo alle quattro del pomeriggio quel giorno. Dovevamo andarci tutti, alla fine rimanemmo solo io e Daniele. La mitica Punto bianca che non butto anche se è a pezzi, solo perché porta fortuna, a lottare contro il motore imballato per quaranta chilometri, noi terrorizzati dal non arrivare in tempo. Eppure la partita era alle 20.45. Una strana coppia: del gruppo eravamo, l'uno per l'altro, l'amico del Comandante. Ma il Napoli ha fatto sì che fossimo compagni di viaggio – quelli alla De Gregori, per intenderci – e sodali. Amici.
La partita era la quinta del girone di Champions League, la prima giocata dalla nostra squadra. All'andata eravamo sul mio divano rosso, tutti e sette. Ci commuovemmo davanti all'inno della manifestazione, senza pudore. Ci aspettavamo la goleada avversaria, passammo addirittura in vantaggio. E al gol del pareggio di quelli che portano il nostro stesso colore, ma più sbiadito, non imprecammo. Quel punto ci sembrava già un sogno. Almeno non avremmo chiuso a zero.
Come ci sbagliavamo: vincemmo col Villareal, pareggiamo col Bayern Monaco in casa e quasi arrivammo a un improbabile 3-3 all'Allianz Arena. Eravamo in piena corsa e contro il City di Mancini e Balotelli ci giocavamo tutto quella sera. E giocavamo anche io e Daniele: risate, scherzi, persino Radio Marte che mandava le burle telefoniche con il jingle “ci sei cascato”. Fingevamo disincanto, ci preparavamo alla sconfitta, ci bastava vendere cara la pelle. A parole. Perché dentro ci credevamo. Quei leoni, anche grazie a Walter Mazzarri, ci avevano già insegnato che, se in giornata, potevano vincere contro chiunque. E ce ne accorgemmo quando intravedemmo il Vesuvio: mai come allora perdemmo il dono della parola, devastati dalla paura di perdere. E di vincere.
“Quanta tensione, quanta attenzione” continuava a ripetere Daniele, quel mantra surreale lo teneva in piedi. E arrivati nei distinti inferiori solo un simpatico pazzo che urlava i nomi dei giocatori, di improbabili santi e frasi sconnesse riusciva a farci sorridere. Poi è iniziata la battaglia. Dopo 30 secondi ci siamo guardati: avevamo già vinto. Il San Paolo era una bolgia paradisiaca, fatta di canti e bandiere, di sciarpe e coraggio. Solo il giorno dopo avremmo saputo che Yayà Touré, entrando, si spaventò. “Quando ho messo piede sul campo – disse - ho capito la magia di quello stadio: unica al mondo. Qualche partita importante nella mia carriera l'ho giocata, ma quando sentii quell'urlo per la prima volta in carriera mi tremarono le gambe. La mattina andammo a fare riscaldamento allo stadio, Tevez mi parlava sempre del San Paolo, ma io che ho giocato nel Barcellona mi dicevo: che sarà mai? Eppure là dentro sentii qualcosa di magico, di diverso. Quando li sentii prima cantare l'inno della Champions in 80.000 e poi fischiarci con la stessa intensità, capii in che guaio ci fossimo messi. Fu lì che mi resi conto che questa non è una solo squadra per loro, ma è un amore viscerale come quello che c'è tra una madre ed un figlio! Fu l'unica volta che dopo aver perso rimasi a godermi lo spettacolo sugli spalti dal rettangolo di gioco”. Lo fece anche il nostro Christian Maggio: scuoteva la testa, non credeva ai suoi occhi.
Ma più del risultato, il 2-1 che vide il solito Edinson Cavani segnare una doppietta e rendere vano il gol di Balotelli su errore di Aronica, sono indimenticabili il sostegno incessante, i boati dei gol – leggenda metropolitana vuole che fossero stati rilevati persino dai sismografi (non è vero, ma ci crediamo lo stesso) -, l'urlo di liberazione e gioia al fischio finale, Oj vita mia cantata a squarciagola da decine di migliaia di innamorati (quello di Massimo Ranieri, non l’obbrobrio attuale). Daniele ed io, abbracciati, non credevamo ai nostri occhi, alle nostre orecchie. Eravamo diventati grandi: ce lo disse pure Lampard, qualche mese dopo, dedicandoci la Coppa. O quasi. Citò Napoli come ostacolo decisivo superato il quale, i Blues, si resero conto che avrebbero potuto vincere. L'orgoglio di una città, di un popolo è in quella notte magica. E noi, nel nostro ritorno a Roma, sentimmo per decine di volte We are the champions, dei Queen. Da lì, diventò una tradizione per tutti noi. Nacque sull'autostrada del sole, a notte fonda. In quelle ore compresi un'altra delle cose che rende noi partenopei così speciali: per neanche un secondo sbeffeggiammo gli avversari. Noi, insultati a Verona, derisi dalla Torino bianconera che canta, quando ci batte, O' surdato 'nnamurato (non rendendosi conto della propria sconfitta, così segnano la nostra superiorità), emarginati e ingiuriati in quasi tutta Italia, non avevamo bisogno di schiacciare i rivali sotto improperi inascoltabili. No, noi siamo gioia pura, a 24 carati. Noi siamo amore, pazzia, ironia – Balotelli fu “sfottuto” ma non un solo epiteto razzista gli venne rivolto -, musica e passione. Siamo Dduje Paravise, la canzone in cui San Pietro, a due prufessur 'e cuncertino che vogliono lasciare l'Eden per tornare a Napoli – 'u Paradis' nostr' è chello là – si sentono rispondere dal prediletto di Cristo “siete pazz' ca dicite, nun vulite restà 'cca?”.
Mi sentii ancora più orgoglioso di me, di noi, di tutti. E soprattutto di Napoli e del Napoli. Bisogna saper vincere. E noi lì, come altrove, dimostrammo anche a un centrocampista della Costa d'Avorio sensibile e grintoso quanto potesse essere persino dolce una sconfitta se chi primeggia è speciale. A ricordarmi quel giorno ora c'è una t-shirt: la foto dello stadio quella sera, una frase dolcissima. Il regalo di Natale di Tania. Che come al solito c'è, in ogni partita, anche quando non viene nell'arena di Fuorigrotta.