Il 10 giugno 2007 un solo coro: “Genoa e Napoli in serie A!”
Dal libro #chevisietepersi
di Boris Sollazzo
“Il mio ricordo più bello? Le lacrime a Marassi nello spogliatoio dopo Genoa-Napoli. Quello in Serie B è stato un anno indimenticabile, per assurdo ho gioito di più quel giorno che la sera della Coppa Italia. Era la rinascita di un Napoli che oggi è quello che è”.
Così ha parlato, ai microfoni di Sky, il capitano Paolo Cannavaro. Parole sante: solo chi ha la maglia azzurra cucita addosso può sapere che quello 0-0 rimarrà il momento più bello del nuovo Napoli.
Io c'ero. Mi accompagnò Francesca Talamo, un'amica preziosa che trovò biglietti, contatti e la voglia di non lasciarmi solo in quella giornata storica. Non ha, nel suo cuore grande, i nostri colori, ma come abbiamo già detto, la malattia partenopea è contagiosa. Trovai una città che mi accolse fraternamente. Capii quel giorno, in cui il Genoa aveva un solo risultato a disposizione, la vittoria, che eravamo davvero fratelli: la maggior parte dei biglietti per i tifosi azzurri erano stati reperiti da amici rossoblu, e così vissi la mia fortuna più grande: incontrare la famiglia Parodi. Pia e Sandro, Andrea, sono diventati la mia famiglia del Nord. Io, il loro portafortuna: se vedo il Genoa con loro, perdiamo. E anche male.
C'era solo una possibilità, quel giorno, perché festeggiassimo insieme: un pareggio e la mancata vittoria del Piacenza con la Triestina. Improbabile, soprattutto per due società “sfigate” come le nostre. Genoani e napoletani hanno un antico e saldo gemellaggio, cementato anche dalla reciproca sfortuna. Ma la festa sugli spalti era comunque totale: ogni settore vedeva un mix poetico e gioioso di avversari.
Il Genoa aveva espresso il calcio più bello, il Napoli di Reja aveva mostrato quello più efficace. La Juventus era già da tempo in serie A. Ma nel primo tempo successe l'impensabile: i partenopei giocarono i loro 45 minuti migliori, due pali e tanto spettacolo. Io avevo una radiolina: l'unico tra 10.000 persone nella mia fetta di stadio. In quella bolgia sono io, dopo mezz'ora a dover dare la brutta notizia: sta vincendo il Piacenza, ha segnato Degano, il Genoa in quel momento è nei play-off. Ho quasi un infarto quando pochi minuti dopo Hugo Campagnaro, che forse sapeva che sarebbe stato, tre anni dopo, una delle colonne della nostra squadra, butta a lato di poco il 2-0. Al 70' la tensione si taglia con il coltello. In campo i 22 si danno battaglia: la paura fa da padrona, i rossoblu attaccano di più, ma come si fa a compiere il fratricidio calcistico più doloroso?
Proprio allora segna Allegretti. Punizione. Gli occhi mi si inumidiscono, non capisco più nulla, mi gira la testa, alzo le braccia, mi giro. Urlo solo “Triestina!”. Centinaia di persone piombano su di me, urlando. Ora le due squadre sorelle sono in A. Nel rettangolo di gioco si smette di giocare, hanno saputo. Per battere una punizione ci mettono anche quattro minuti. Tutti festeggiano, ma al Garilli espellono un triestino. Si soffre fino alla fine, ma io soffro in silenzio, non voglio far preoccupare i miei amici, quelli con la mia stessa casacca e gli alleati vestiti di due colori.
La partita non finisce mai. Anzi, le partite. Poi succede. E scopro cos'è la felicità: pura, selvaggia, ma soprattutto condivisa.
E allora non riesco a non pensare a Edoardo Parodi e Carlo Giuliani.
Il secondo lo conoscete sicuramente, il primo molto probabilmente no. Avrebbero dovuto esserci quel pomeriggio. Che si sono persi, dannazione. “GenoaeNapoli! GenoaeNapoli!”. Era un coro ininterrotto, gioioso. Ci ricordava quel maledetto 2001, quei giorni, prima a Napoli e poi a Genova, in cui strapparono alla nostra generazione, già precaria, quel po’ d’innocenza che c’era rimasta. Il 20 luglio 2001 hanno ucciso Carlo. Il 2 febbraio seguente l'ha seguito il suo migliore amico, Edoardo Parodi, dopo un’altra manifestazione, a Zurigo, contro il WTO. Ci hanno detto che sono stati due incidenti. Un proiettile che rimbalza su un sasso, un malore di un ventiduenne in salute. Noi, che abbiamo lottato insieme a loro, accanto a loro, non riusciamo a non pensare che siano state due esecuzioni. Con un proiettile e un fumogeno di chi ottusamente difende il sistema. Non possiamo dimostrarlo: un processo ridicolo non ha fatto luce su Carlo, su Edo non c'è stata neanche autopsia. Vicini in vita, lo sono stati pure a Piazza Alimonda, a Piazza Carlo Giuliani Ragazzo. Una scritta su un muro, una targa più volte profanata da idioti. Giocavate sempre a pallone insieme, tu Carlo, romanista e tu Edo, genoano, tifoso vero, della gradinata Nord, uno di quelli che non si dimenticano.
Non ho resistito, Edo, e nonostante i ricordi di quel 2001, ho deciso di tornare a Genova. Avevo paura, non te lo nascondo. La città era vestita a festa. I tifosi, da non crederci, si sono abbracciati prima, durante e dopo la partita, fuori e dentro lo stadio. Forse perché quel giorno abbiamo visto il calcio che piace a noi, quello che non vediamo più da tempo, quello che giocavamo in strada. Da 12 anni i tuoi rossoblu non rivedevano la massima serie. Da sei gli azzurri. Ma è quello che è successo dopo che voglio raccontarti. La città è impazzita di gioia. Abbiamo invaso il campo e tanti, direi anche tutti, si dirigevano verso la targa in gradinata Nord, quella dedicata a te. “Il pugno chiuso verso il cielo - recita - un urlo di dolore, un compagno che rimane dentro il cuore, ciao Edo. I compagni rossoblu”. E noi ti salutavamo con il pugno chiuso e così festeggiavamo con te. Mentre, sì lo ammetto, saccheggiavamo campo e porte alla ricerca di souvenir. Era strano quello che succedeva. Genova, dal 2001, non era più stata felice. Così felice. Siamo usciti dallo stadio e si è formato un corteo. Enorme, spontaneo, in cui le bandiere e i tifosi di tutte e due le squadre si abbracciavano e si baciavano. Era un carnevale senza carri, liberatorio. Una festa continua, ma in fondo tranquilla. Forse non credevamo ai nostri occhi, chissà. E camminavamo, tanto, come in quei giorni di luglio è accaduto a Carlo, come è successo sicuramente a Zurigo a te, Edo. Con i tuoi genitori, con tuo fratello, ci siamo insegnati cori, scambiati ricordi e abbracci. Era troppa quella gioia, dovevamo dividercela. In quei chilometri a piedi ho capito che io, te, la tua famiglia generosa e speciale, un’intera città e un pezzo della nostra generazione disastrata e arrabbiata, si stava riprendendo la città. Genova era di nuovo nostra, ce l’avevano strappata. Lo vedevo nelle nostre facce. Lo sentivo dentro, e anche fuori. Già, perché proprio tua mamma, Pia, donna straordinaria, mi ha detto “stanno, stiamo andando a Piazza Alimonda”. Lo facevano, lo facevamo senza nessuna volontà irriverente. Era quella la tappa finale, naturale, di una domenica pazza e irripetibile. Era inevitabile, l'ho capito solo dopo. Lo era anche, forse, che fosse il “nostro” calcio lo strumento di riconciliazione e consolazione dallo stupro che avevamo subito.
Come generazione, come città, come paese, come uomini liberi.
Ed era giusto che si riunissero Genova e Napoli, che in quel 2001 furono ferite a morte. La nostra era una processione laica, era una manifestazione, in cui tu e Carlo camminavate con noi e per questo vi cercavamo continuamente.
Continueremo a cercare verità e giustizia per Edoardo Parodi e Carlo Giuliani, anche se fanno di tutto, guarda un po’, per nasconderle. Noi che eravamo là con le bandiere, bambini ebbri di gioia, continueremo a lottare per smentire tutte quelle voci idiote che hanno usato per infangarvi. Vale per voi come per Federico Aldovrandi e Stefano Cucchi. E per tutti gli altri. Giochiamo tutti nella stessa squadra.
Dovevi esserci Edo, maledizione. E dovevi portare anche Carlo, magari dicendogli quella frase che doveva diventare (e speriamo, magari diventerà) il titolo di un film di Daniele Vicari.
“Per una volta dai retta a me: corri”.
Ti, ci, vi hanno strappato questa gioia. Ma tanto in quel 10 giugno 2007, il mio giorno più bello del 2007, non mi hai abbandonato neanche per un attimo.
Estratto dal libro #chevisietepersi di Boris Sollazzo, Fandango Libri, 2013: per acquistarlo su Amazon clicca qui.