di Enrico Ariemma
Siamo cresciuti. Dimensione, caratura, profilo internazionali, ormai. Al netto di qualche delusione e di troppi punti buttati via malamente in campionato, di una qualificazione ai quarti di EL forse meritata nei 180’, qui ormai si gioca alla pari con tutti. Abbiamo smaltito in poche dolorose lune il rimpianto per Lavezzi e Cavani; non ne sentiamo nostalgia. Diamo del tu a Lewandowski, Ozil (e che tu), a Jackson Martinez; in casa nostra, poi, siamo belli, a volte supponenti, forse vagamente narcisoidi. Siamo forti, di una forza riconosciuta, temuta, osteggiata dai professionisti della disinformzione nazionale. Stimata in Europa, anche per questioni amministrativo-gestionali, soprattutto in ambiente anglogermanico.
In quest’ottica, noi giochiamo, con l’elmetto del Rafapensiero, sempre e solo per i tre punti. Per un obiettivo dichiarato e da conseguire. Con un progetto profilato e riconoscibile, di cui Rafa è garanzia tecnica ed etica. Tutto vero, Però domenica c’è Napoli-Juve. Nel salotto radicalchic qualcuno ci vorrebbe insegnare che è una partita (quasi) come un’altra. Importante, sentita, certo, chi lo nega: ma i tre punti in palio, in fondo, valgono come quelli di Catania, quelli di Sassuolo, quelli di una Livorno qualunque. Mica possiamo farci dettare l’agenda delle priorità ideologiche dalla Juventus. Ma anche no.
Napoli-Juve, è, è stata, rimarrà in eterno la madre di tutte le partite. Ok, abbiamo superato lo stadio infantile, quello per il quale il nostro campionato si esauriva nell’esito di “quella” sfida, ne costituiva l’incremento di senso, decretando il trionfo barocco del particolare sulla visione d’insieme. Qualche solone che ostenta distacco e capacità di sintesi superiore ci ammonisce proprio oggi che, nel caso di specie, la partita conta poco o nulla, è retorico caricarla di sovrasensi inesistenti. Riempirla di significati posticci è spia inquietante di piccineria, esibizione scomposta di complessi di inferiorità elaborati poco e male.
Io però, negli ultimi quarant’anni, i Napoli-Juve li ho vissutI tutti, al Tempio. Un florilegio di brandelli di ricordi azzurri, cari al cuore e al cervello, chiusi a chiave nella cantina della memoria. Taccio delle trasferte antiche, taccio di core ‘ngrato e del mio primo pianto dirotto per il mio sangue azzurro colpito a morte. Rimuovo con fatica anche il fiele delle batoste casalinghe amare, quel 2-6 prenatalizio e bugiardo col Napoli che giocava quell’anno un calcio pazzesco con giocatori normalissimi, e poi quello 0-1 dopo partita scialbissima l’anno in cui, col terremoto a piagare la città e l’anima collettiva, toccammo il tricolore con un dito salvo perderlo contro l’ultima in classifica.
Ma per me Napoli-Juve sono i giorni delle vittorie, la rete gonfia e piena, lo sguardo spento dei portieri in bianco e nero trafitti, o uccellati avrebbe detto qualcuno, dal sangue azzurro. Il compassato, plastico, essenziale Zoff, bombardato da Canè da venticinque metri, ma al me stesso bambino, quel pomeriggio di ottobre ’73, il missile terra-aria parve partire dalla linea di centrocampo. L’isterico, frustrato, guascone Tacconi, una prima volta infilzato, sotto una pioggia novembrina miccia miccia, dal colpo di biliardo di D10S versione ’85 ribelle ad ogni legge fisica e aerodinamica e spiccato da troppo vicino (“tanto gli faccio gol lo stesso”); una seconda volta perforato più da lontano, nonostante i suoi appelli memori e i suoi gesti disperati verso una barriera più rassegnata che terrorizzata. Il supponente, ipocrita, pseudo-moralista Buffon sballottato da un irripetibile Gargano, ipnotizzato dai due rigori di Domizzi, irretito dalle magie del Macedone.
E comunque, non è solo questo.
Come la mettiamo con l’entità aliena, il monstrum horrendum, l’ibrido mezzo uomo e mezzo nonsocosa, che tifa in contumacia per qualcosa che sta quasi in Francia, che festeggia scudetti rubati e non sui social o telefonando agli amici, senza azzardarsi a scendere in strada, che non conosce l’osmosi con la propria gente perché è detestato dai suoi stessi fratell(astr)i di tifo, che da terrone lo prendono e da terrone lo lasciano? Parlo del Merdj (credits: Vittorio Zambardino), del meridionale juventino nella sua radicalizzazione campana e napoletana, altamente specializzato nella sua visione della vita, del mondo, del calcio come celolunghismo brado. Se non c’è tifo senza la coscienza del radicamento nel e sul territorio, allora lo juventino napoletano (e campano) è una miserevole contraddizione terminologica oltre che esistenziale. Lui corre, à la Flaiano, in soccorso del vincitore. Lui liofilizza la sua pseudopassione sciogliendola nell’odio preventivo che giustifica, ‘ncapa a isso, la scelta di concedersi al più forte. Lui subisce la virilità di stupro del padrone per poi edulcorare la frustrazione di mimetizzarsi qui valutando il tifo a chili: che hai vinto? quanto? quanti? Lui, però ineducato alla bellezza e alla lealtà, incede sul lungomare vantando le Coppe dei Campioni in bacheca: plurale, perché quella rubata davanti ai morti all’Heysel fu doppiamente difesa, ti fa notare, dall’attuale presidente Uefa, prima a caldo, con manovella d’ordinanza a festeggiare il rigore (rubato, ça va sans dire), poi a freddo, scendendo dall’aereo dopo ventiquattr’ore col trofeo esibito, appunto, come un trofeo. Quanti ce ne sono, da queste parti.
È abbastanza, credo.
Mi piace “atteggiarmi”, lo so, a esegeta delle sovrapposizioni, a anatomopatologo delle ripartenze, a cesellatore di fini analisi strategiche. Ma Napoli-Juve viene una volta l’anno, e la mia sindrome di Malato Azzurro Bipolare chiede di esibire il suo grado zero, quello truzzo, oppositivo, indisponente, preme per esasperare la gioia, il dolore, la rassegnazione, la speranza, l’imprecazione, il mugugno, l’urlo liberatorio, il mutismo macerato, Che la dea Eupalla consenta, lunedì, a un modesto filologo pendolare di recarsi tronfio alla sua meravigliosa Università, a stanare le orde di merdj sciogliendosi in un franco, schietto, carnascialesco “kivemmuort”. Rigorosamente con la –k.