Quella notte che Roma ci fu dolce e cantammo We are the champions

Da “#chevisietepersi” vi riproponiamo il capitolo su Napoli-Juve finale di Coppa Italia 2012: la lacrime di Lavezzi, le nostre, e un 2-0 che finalmente ci rende giustizia

di Boris Sollazzo

I tre moschettieri (più di) vent’anni dopo. Un tempo era la Ma.Gi.Ca. (Maradona, Giordano e Careca), quella sera sono stati Hamsik, Lavezzi e Cavani. Con meno fantasia e voglia di sognare li hanno chiamati i tre tenori.

Non potevo non raccontarvi l’unica grande vittoria di questi ultimi 10 anni che abbiamo voluto narrarvi sotto la lente di un tifo disorganizzato che alterna divano, spalti, pub improbabili in ogni parte d’Europa come luoghi del cuore e del sostegno a quei colori “che a me fanno soffrire, nella mia mente un ideale e nel mio cuore Napoli!”. Scusate, mi son fatto prendere la mano.

Perché vi racconto questa sera ’e maggio? Semplice, è la rivincita di tanti napoletani emigranti. Delle migliaia di partenopei a Roma, che hanno sofferto per vent’anni nella Capitale. Io, nella tronfia, gradassa, irresistibile caput mundi ci sono nato e ci ho vissuto. Ma non ci ho mai fatto molta amicizia: per carità è bella e simpatica, ma non ti puoi fidare di lei.

E allora cosa c’è di meglio che giocarsi la Coppa Italia, il primo trofeo che potresti vincere dai tempi della Supercoppa Italiana 1990 (5-1 contro le zebre) – visto che persino quella di C perdemmo –, allo stadio Olimpico di Roma e per di più contro l’odiata Juventus? Nulla. Se non fosse che tu non sei la Roma e non prepari già maglie con stella e coccarda: tu sai che con te la sorte è sempre stata gramigna, che i sogni dalle tue parti diventano spesso incubi.

Mia sorella Tania, Ferdinando Venezia ed io non eravamo tesi. Eravamo, quel giorno, in preda a un terrore purissimo, insopprimibile. Lo combattemmo nel modo peggiore: entrando sei ore prima allo stadio. Ma il bello di tifare Napoli è anche questo: quando la vittoria ti sembra l’unica via di fuga possibile, capisci che esserci è ancora più importante. Guardi tutti gli altri, preoccupati e febbrili, e sai di non essere solo. Poi si mettono a giocare dei bambini e tu tifi per loro con lo stesso trasporto, perché poi il pallone ha questo di magico. È tenera poesia, bastano i colori, basta la maglia per accenderti. Se hai visto andar via Maradona non può spaventarti la partenza di Cavani. Il cuore te l’hanno già strappato con l’agguato a Diego.
Insomma, se non l’avete capito, noi amiamo molto il Napoli anche per ciò che rappresenta.
Il riscatto, dal basso, di un popolo insultato e sfruttato, il romanticismo che ha in sé il calcio, unico luogo in Italia in cui, una volta ogni tanto, non vince il più potente, il più furbo, il più ricco. Ma il più bravo e il più forte. Capita raramente, ma comunque più spesso che nella vita normale. E se nella realtà chi rompe le regole magari diventa presidente del Consiglio, nel calcio alle volte chi lo fa viene punito. Poco, male, in ritardo. Ma succede. E se si vendono una partita, più d’una volta non gli va a buon fine. Perché in quel campo non puoi controllare tutto. Più che vincere, a noi, piace godere delle storie epiche ed etiche che ci lascia la nostra squadra, creare eroi e poi lasciarli andare via, affezionarci ai perdenti e diventare vincenti per la strada più lunga e difficile. Ci piace lottare, senza scorciatoie. Io, il Napoli lo scelsi indicando la classifca di 90° minuto. Era ultimo.

E se arriva un aiuto, lo riconosciamo, perché in fondo ci sentiamo in colpa, non ci siamo abituati, non ci piace (ma contro la Juventus sì, ovvio: rubare a casa del ladro è un dovere e un piacere).
In questa finale, ve lo dico subito, Aronica sullo 0-0, proprio davanti al nostro settore, ha fatto un fallo da rigore, tanto netto quanto dissennato, su Marchisio. L’arbitro non ha fischiato e per la prima volta nella vita ho sentito un sospiro di sollievo in coro: almeno 20.000 persone hanno trattenuto il fiato per poi rilasciarlo perfettamente sincronizzate tra loro. Ci siamo sorrisi, poi ci siamo girati verso i tifosi rivali – noti per non riconoscere mai le ingiustizie che gli altri patiscono perché loro siano favoriti e per un difetto congenito a far di conto senza il resto di due (scudetti) – e abbiamo beffardamente confessato, cantando, “Era rigore! Juventino era rigore!”. Noi siamo così.
In quella finale, poi, tutto riuscì come una sceneggiatura ben fatta. Cavani segnò il rigore – ed è già un piccolo miracolo per chi ne sbaglia uno su due –, Marekiaro Hamsik, il nostro adorato slovacco napoletano, raddoppiò e tirò fuori l’esultanza più cazzuta dai tempi della sostituzione a Villareal, qualche mese prima. Poi Quagliarella, il traditore, si fece espellere e Grava si alzò dalla panchina per incitarci a urlare più forte.

Abbiamo vinto, 0-2. E lì succede qualcosa di inaspettato. Tutti esultano attorno a me. Io no. Io crollo, seduto... Rilassato per la prima volta da vent’anni. Piango a dirotto, io che non mi faccio uscire una lacrima neanche nelle occasioni in cui è sconveniente non produrne almeno qualcuna. Il peso di troppe sconfitte si libera e pochi metri più sotto, in campo, piange un giovane argentino, Lavezzi. Sa che se ne andrà, ci saluta. Ci guarda in faccia per dircelo con sguardi muti.
Ma la nostra è gioia forte, e allora quell’acqua salata che riga le guance diventa comunque dolce. Cantiamo Oj vita mia, urliamo fino a sgolarci, ridiamo di quei bambini cresciuti in calzoncini che dribblano i tifosi che invadono, si rubano la coppa l’un l’altro, si abbracciano. Infine usciamo, spossati. Tre tifosi ebbri di gioia, che salutano estranei, ballano con loro, commentano ogni minuto. E chiamano gli altri del gruppo, perché i magnifici sette sono sempre insieme, anche quando due sono a Istanbul e gli altri sono stati costretti a rimanere fuori, per via della Tessera del Tifoso.
Infine questo pazzo gruppetto sale su una Punto Bianca lanciata a più di 100 all'ora, cantando a tre voci e in lacrime We are the champions sull’Olimpica (a proposito Freddie, grazie).
Riprendendosi la città in cui hanno vissuto – i due fratelli – e in cui Ferdinando ha studiato. Quella Roma ostile che al Napoli gemellato di un tempo ha sostituito da quasi trent’anni un nemico da insultare in ogni modo, da odiare con ostinazione.
Avevamo espugnato la capitale, vincendo una Coppa. Boris e Tania Sollazzo, quella sera, hanno vinto due volte. Perché non è giusto fare graduatorie nei sentimenti, ma se sei un tifoso sempre in trasferta, vali doppio. E vincere nella “tua” Roma, contro la Juventus, non ha prezzo.

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