Aurelio De Laurentiis, il presidente gattopardo

Si finge temerario per esercitare la sua forse eccessiva prudenza. Nella sua presunta forza si cela la più grande debolezza del nostro Napoli
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    di Giulio Spadetta

    Salvo disastri arriviamo terzi. Proprio come nel 2011. E magari vinciamo la Coppa Italia, proprio come nel 2012. Avremmo potuto arrivare secondi, come nel 2013, ma purtroppo gli impegni europei ci hanno penalizzato, come dicevamo già nel 2010, ma anche nel 2011-2012 e un po’ perfino nel 2013.
     “A finale”, dove ci ha portato la straordinaria rivoluzione della scorsa estate? Quella che “addio tizio, addio caio, ora cambia tutto”?  Questo stravolgimento fatto da Higuain, Callejon, Albiol, Reina, Callejon, Mertens etc, ma soprattutto da Rafael Benitez, “L’uomo che non si può non amare”, insomma tutto ‘sto bordello che ha prodotto? La permanenza ad alta quota. Tutto qui. Arriverà un terzo posto e forse una coppa, che per i filo-governativi diverrà un prestigioso trofeo e per i contestatori sarà solo un contentino. (Apro parentesi: ma perché state tutti così ottimisti per la finale del 3 maggio? Dobbiamo battere la Fiorentina, mica lo Scurcola Marsicana).
    Questa stagione, che gli instancabili cantori di Rafa continuano a definire “Grandissima”, è in realtà l’esempio lampante del Gattopardismo Aureliano: si finge di cambiare tutto e invece nulla cambia: tra fugaci illusioni, temporanee esaltazioni, onorevoli sconfitte e inattesi rovesci, un altro anno è andato. Abbiamo applaudito e fischiato, esultato e bestemmiato, goduto e sofferto come avviene da tre o quattro anni a questa parte. Non mi sembra sia cambiato poi chissà che cosa.
    Però quando un tifoso ha un disagio, è bene confessarlo. Ed ecco la mia confessione: mi divertivo di più con I Tamarri. Ma sì, come definire altrimenti i nostri vecchi eroi caserecci? Quelli come Lavezzi, che arrivò grasso, barocco e coi piedi storti (non che li abbia mai aggiustati, ma insomma…). Oppure Hamsik, che sembrava solo un ragazzino Diversamente Dentato (cit.). E poi gli Aronica e i Cannavaro, i Pazienza e i Dossena, i Gargano e i Mascara, fino ai due tamarroni principali: Mazzarri, con i suoi capelli alla Peppino Gagliardi, e Cavani, considerato dai palermitani come un terzino di fascia che si incaponiva a fare l’attaccante.
     Però vedere vincere i Tamarri era molto più sfizioso, perché è più facile ballare assieme a una banda di musica che si scopre campione di vendite, piuttosto che ascoltare in compunto silenzio un gruppo di artisti stranieri che vuole ricreare la magia della Filarmonica di Barcellona. Preferisco le pizze fritte di Nennella ai tentativi malriusciti di Nouvelle Cousine. Meglio lo strutto che il destrutturato, insomma. Fuor di metafora, in questa squadra vedo molta testa, ma il cuore batte solo a comando, e questo non mi piace.
    A proposito di cose che non mi piacciono, ora faccio un saltino nel passato remoto: negli anni Settanta il fortissimo portiere del Napoli Dino Zoff passò alla Juventus (lo dico per i più giovani). Ogni volta che quei simpaticissimi bianconeri venivano al San Paolo, per Zoff c’erano applausi, cori e fiori. In seguito sarebbe successo qualcosa di simile con Lippi, Fabio Cannavaro, Ciro Ferrara… Si chiama riconoscenza. Io sono riconoscente con chiunque abbia fatto bene al Napoli. E allora, cos’è questo eterno dileggio verso Mazzarri, Cavani, Lavezzi e altri? Chi ha fatto bene e fino in fondo il suo dovere con la maglia azzurra andrebbe sempre rispettato, anche quando si trasferisce altrove. E anche se non è mai andato a vedere la Reggia di Caserta. Va bene, fine del pistolotto.
     E’ tempo di ammissioni. E quindi bisogna ammettere che quest’anno non era semplice ricominciare da capo senza pagare dazio. Però mi chiedo come abbiano fatto alla Juve nel 2011, dopo due settimi posti, o alla Roma quest’anno. Evidentemente – ecco un’altra ammissione – sono stati un po’ più bravi di noi. Perché loro non hanno Aurelio, l’uomo più cauto del mondo. Non fatevi ingannare dai suoi fuochi d’artificio, dalle parolacce e dalle aggressioni. In  realtà il nostro Patron è uomo prudentissimo. E qualche volta per vincere sul serio occorre rischiare e lui non si azzarda mai ad alzare la posta. Ma non ditelo agli Aureliani, perché sennò quelli tirano fuori Corbelli e il Cittadella e ci fanno la uallera alla pizzaiola, per usare un’altra finissima metafora culinaria.
     

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