Da Careca a Jorginho, il nostro sogno a ritmo di samba

Diamo il benvenuto al centrocampista brasiliano con gli amarcord di quattro connazionali che l'hanno preceduto in azzurro: eroi immortali come Antonio e Dirceu, tremendi “perché” come Caio e Beto (con un po' di “luci rosse” alla fine)
  • DIRCEU (di Francesco Albanese) – Come Jorginho anche Dirceu arrivava dal Verona, ma le analogie tra i due si fermano qui. La "formichina", così lo chiamavano, era già un ultra trentenne, e a quell'epoca (1983) significava essere a un passo dalla pensione. Capitò a Napoli in una delle stagioni più tribolate, di lui mi colpì il giudizio di mio padre: "Predica nel deserto". Quell'immagine mistica si fissò nella mia mente di bambino per non uscirne più. Il suo impegno domenicale faceva commuovere: chiedeva un triangolo e la palla mai tornava sui suoi piedi, giusto per fare un esempio. Di quel Napoli faceva tristezza pure lo sponsor: perlomeno a Roma del Latte Berna non c'è mai stata traccia. Eppure alla fine ebbe ragione lui. Con 5 gol in 30 partite la salvezza fu raggiunta, e Ferlaino poté partire alla caccia del Pibe de oro. Caro Josè, te ne sei andato a soli 43 anni, ma le tue "prediche" me le ricorderò per tutta la vita.

    CARECA (di Boris Sollazzo) – Carè, Carè, Carè. Solo i grandi uomini, le grandi canzoni, i grandi eventi meritano d'esser ripetuti tre volte. Il corre, corre corre la locomotiva gucciniano, il campioni del mondo martelliniano del 1982 e, appunto, il nostro Antonio che esortavamo a tirare la bomba.
    Ti amiamo ancora oggi che dici che hai il nuovo Ronaldo tra le mani ma non lo fai mai venire a Napoli, anche perché, dici, la società ti ignora.
    Ti amiamo perché eri il più grande giocatore del mondo dopo "Diego, Armando e Maradona", come dicevi spesso. Perché sei rimasto e hai segnato anche quando tutti cominciavano ad andarsene, perché ci hai dato più di quanto abbia ricevuto.
    Perché hai segnato a Stoccarda e a Bologna, insegnando calcio con Diego, con gli avversari a fare da spettatori.
    Perché tutti facevano benzina a Napoli solo al distributore in cui c'era il tuo sosia sputato.
    Perché sei stato l'unico ad aver saputo parlare la stessa lingua di Diego e, come lui, a capire la nostra.

    CAIO (di Domenico Zaccaria) – Tecnica sopraffina e innato senso del gol. A queste due caratteristiche ogni tifoso pensa immediatamente quando scopre che la sua squadra ha acquistato un attaccante brasiliano. Bene, chiariamo subito che Caio non aveva nessuna delle due qualità. E se a questo aggiungiamo una stazza non proprio da corazziere, il centravanti arrivato dall'Inter può tranquillamente rientrare nel novero delle grosse pippe. Eppure è rimasto nel cuore di tutti i tifosi del Napoli o almeno di chi, come me, era nel settore ospiti dell'Olimpico nel quarto di finale di Coppa Italia contro la Lazio, nella stagione 1996-97. All'andata era finita 1-0 per noi e al ritorno Casiraghi aveva pareggiato il conto dopo pochi minuti. Sembrava l'inizio della fine e invece, su un calcio d'angolo, la prese di testa questo brasiliano timido e mingherlino: gol, 1-1 e turno passato contro ogni pronostico. Per la cronaca, in quell'unica stagione in azzurro Caio mise insieme 20 presenze con zero gol all'attivo in campionato. A dire il vero un'altra rete gli fu attribuita da Pizzul durante una telecronaca Rai che è diventata un cult: fuga del tozzo e nerissimo Beto, gol del pareggio all'Inter con il telecronista Rai che lo scambia per il mingherlino e bianchissimo Caio. Il tutto avvenuto, curiosamente, ancora in Coppa Italia. Peccato che il Napoli avrebbe poi perso la finale contro il Vicenza: altrimenti quella sarebbe stata ricordata, nel bene e nel male, come la Coppa di Caio. 

    BETO (di Errico Novi) – Di Joubert Araujo Martins detto Beto ho tre lampi nella testa. Il primo è una telecronaca differita di Gianluca Vigliotti su Canale 34, l’emittente privata che all’epoca aveva i diritti per le differite. Siamo nel 96-97, fine settembre, Sampdoria-Napoli: questo brasiliano che finora è apparso più caciarone che bravo riceve un pallone subito dopo la metà campo, punta l’area, fa tunnel a un doriano e poi scarica una mazzata memorabile nel sette. L’urlo di Gianluca è impressionante: dentro c’è tutto il sollievo per lo spettro di una clamorosa sòla almeno momentaneamente allontanato. Passano diversi mesi, per un attimo assaporiamo persino l’ebbrezza del secondo posto, poi a febbraio giochiamo la semifinale di Coppa Italia contro l’Inter. Beto sfrutta una sponda di Caccia e infila la difesa nerazzurra. Gol del pareggio che ci porterà ai rigori, e stavolta l’urlo impressionante è del San Paolo. Gioia tra le ultime prima di entrare nel tunnel dell’orrore, come ricorda Domenico Zaccaria in un bellissimo amarcord di qualche settimana fa. Colpisce del brasiliano la naturalezza istintiva con cui gioca quando è di luna buona. Un talento che si smarrisce anche per la sua sregolatezza. L’ultimo ricordo si deve a un’amica che lo conosce a una festa: pare che Joubert fosse un habitué del by night chiaiese, ma quella sera rivela un’indole semianimalesca. Ossessiona la ragazza in questione con disinvolte, continue richieste di sesso orale. Col sorriso ebete di un bambino che chiede le caramelle. Dopo pochi mesi vola per il Brasile, non tornerà mai più in Italia. Avrà trovato laggiù la sua felicità.

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