Messi non è un campione. E neanche un capitano

Perché il paragone tra “la Pulce” e Diego Armando Maradona è e resterà sempre irriverente
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    Tratto da “Il Garantista”

    di Boris Sollazzo

    Massacrare Messi è inevitabile. E ingiusto. Nasce tutto dall'inevitabile paragone che qualsiasi argentino dotato di estro, piede e funambolismi vari deve e ha dovuto subire con sua maestà Diego Armando Maradona. Ne abbiamo visti tanti piegarsi a questo confronto: dal fragile Ortega al “duro” Riquelme. Per citare due che con lui sono persino scesi in campo.

    Se poi sei Lionel Messi e a quella comparazione hai consacrato la carriera, tentando persino di replicare i suoi gol in fotocopia, allora non ci si può sottrarre al tiro alla Pulce.

    E allora diciamolo, senza se e senza ma: Messi non è Maradona, né mai lo sarà.

    Diego aveva il popolo dalla sua e il potere contro. E ha reso grande il Napoli, fino ad allora mai vincente. Lionel ha sponsor e Fifa che lo coccolano, con il Barcellona, ormai unica vera superpotenza calcistica capace di mistificare la sua immagine e quella del suo numero dieci. Ma ai tifosi, quelli veri, non riesce ad entrare nel cuore.

    Avete mai sentito un compagno del Diez parlare male di lui? No. Di Lionel Messi, Ibrahimovic insegna, invece, non è difficile trovare qualche cattiveria in giro.

    Il primo ha giocato quattro mondiali, il secondo tre. Anonimi quelli di Lionel, da protagonista quelli del Pibe, persino quando sono andati male: nel 1982 a causa di Gentile, nel 1994 per la squalifica farsa commissionata da Havelange e soci.

    Maradona, nella finale persa con la Germania nel 1990, pianse, consolò i compagni, ringhiò verso l'Italia intera. Il blaugrana, più spagnolo che albiceleste, ha ritirato un premio immeritato con il broncio, è tornato in campo e i compagni li ha aspettati dopo la passerella davanti agli applausi sportivi dei giocatori tedeschi. Mettendosi davanti a loro, senza praticamente guardarli.
    Diego giocava con e per la squadra, mentre nel caso di Leo è la squadra che gioca con e per lui. E se non lo fa – vedi la mancata convocazione di Tevez o il solo Pedro capace di resistergli accanto nella squadra di club – sono guai.

    E attenzione, non bacchettiamo il miglior giocatore del calcio moderno – anche se almeno un paio di palloni d'oro gli son stati gentilmente regalati – per la colpa di non essere il migliore della storia. Ma perché in questa ossessione ci si è infilato lui.
    Il punto è che l'idolo di Napoli è un uomo, un passionale, un genio sregolato e imprevedibile. L'alfiere del Barcellona è un robot, un freddo nerd che pensa solo a se stesso: ieri non gli va rimproverato il diagonale che si è spento sul fondo per un soffio, ma quelle tre o quattro azioni in cui il suo individualismo lo ha portato alla soluzione sbagliata, a non cercare un altro argentino. Il Pibe .- ma anche Francesco Totti, per parlare di campioni “normali” - se vedeva Burruchaga libero (non Crujiff, insomma), arretrava, danzava in equlibrio precario, e lo lanciava. Si fidava e se il compagno sbagliava, lo applaudiva. Sempre.
    Lui, in questo mondiale, di generosità ha peccato una volta sola: con Di Maria, contro la Svizzera. L'unica volta in carriera in cui è stato decisivo in un turno a eliminazione diretta di un mondiale. In cui, ricordiamolo, non ha mai segnato: quattro gol, tutti nel girone.

    Maradona ebbe ragione da solo di Italia, Inghilterra, Belgio e Germania. Nel 1986. E del Brasile nel 1990. E di un'intera serie A italiana nei mesi successivi alla coppa vinta. Giocando insieme a onesti mestieranti del pallone, non con Mascherano, Di Maria, Higuain e Garay.
    Di Messi, al massimo, ricorderemo che ha spezzato le reni all'Iran. Perché lui è così: un flipper, fatto per battere i record. I suoi. Per segnare magari quattro gol al Levante o vincere tutto con Guardiola, ma con Mascherano (ancora lui), Xavi, Fabregas e Iniesta a coprirgli le spalle. Altro che Cuciuffo, Brown, Ruggeri o, citando i migliori che il Pibe ha trovato a Napoli, grandi giocatori, ma non campionissimi come Salvatore Bagni, Massimo Crippa e Alemao. A Diego i compagni davano le palle più difficili, perché “poi ci pensa lui”. Leo si arrabbia se non gliela passi davanti alla porta vuota. Anzi se non gliela passi sempre e comunque.

    Il tiki taka spagnolo di marca blaugrana ha vinto tutto con la nazionale spagnola, l'Argentina con Messi nulla. Segno che è l'asso in vetrina, il ragazzo, ma non è decisivo e determinante. Per essere più chiari: Xavi e Iniesta senza di lui hanno vinto, lui senza di loro no.

    Succede se invece delle strade di Villa Fiorito e dei suoi campi in terra (anzi, in polvere), vieni cresciuto a medicine e cure per combattere una malattia. Se invece di amare il calcio per la gioia che ti dà, sei costretto a eccellere per il benessere che ti dà. Il Barcellona ha condizionato cure e risorse familiari al rendimento e alla crescita, fisica e tecnica, di Lionel, con un cinismo tanto elegante quanto implacabile, crescendo così un clone. Già, come quelli di una pubblicità che in questo mondiale è andata tanto, con il claim “Risk Everything”. I cloni sembrano più forti, finché gli originali decidono di far parlare il cuore, l'istinto, i loro piedi.
    A tratti Messi ce li ha dei guizzi di questo tipo: penso a un palleggio in un fazzoletto di venti centimetri contro il Belgio. Tra tre avversari, poesia pura. Poi ha visto che era una buona posizione per calciare una punizione e si è fatto atterrare. Diego era uno di quelli che lo falciavano e si rialzavano. Bastava che la palla fosse davanti a lui e la tentazione era già troppa.

    C'è poco di umano persino nelle reazioni fisiche dell'attuale numero 10 albiceleste: quel vomito quasi a comando è inquietante quanto, se non più della finale di Ronaldo nel 1998.

    E ancora, mio caro ragazzo, il calcio è un gioco di squadra. La grandezza di Maradona non era tanto nei gol irripetibili, nei dribbling impossibili, nelle traiettorie che sfidavano la legge della gravità e della fisica, nelle parabole perfette. No, era nel rendere grande chi giocava con lui: chiedete a Careca o Valdano, ma anche a Zola o Ciccio Romano. Come dice Cantona nel bellissimo film di Ken Loach Looking for Eric, l'assist, il momento in cui fai qualcosa di bello per un compagno, per la squadra, per i tifosi, quello è il momento magico. Non il successo personale. E allora, sembrerà anche una bestemmia, ma a quelli come te e Cristiano Ronaldo, continuerò a preferire i Di Maria. Loro a giocare in un parco fino a notte fonda ce li vedo. Voi avete soldi, sponsor, numeri e record, ma non saprete mai cosa vuol dire vincere davvero. Voi passate alla cassa, pure quando si tratta dell'albo d'oro, non conoscete il gusto dell'impresa impossibile, della sfida contro tutto e tutti.

    Neanche sapete cosa vuol dire portare su di sé il peso di una squadra e di una nazione intera. Diego vinceva per la gente e per i compagni, persino per allenatori che odiava. Leo tradisce gli allenatori che gli giurano fedeltà e devozione. Diego compreso.
    Maradona era decisivo ovunque, se la squadra era in difficoltà lo trovavi persino davanti alla difesa, sulla fascia, a rompere le scatole sulle punizioni avversarie e a volte anche sui calci d'angolo. Messi, invece, si nasconde. Quando le cose non vanno, quando i duri cominciano a giocare, lui evapora.

    Essere decisivi, a volte, è creare negli altri la speranza che possa pensarci tu, che il proprio sbaglio possa essere sanato dal genio e dal carattere del proprio riferimento, del campione. Del proprio capitano. Ecco, Lionel, il punto è questo: il tuo torto non è non essere Maradona, ma non essere un condottiero, un capitano coraggioso. Guarda dopo il gol di Voeller le facce degli argentini, nel 1986. Gli hanno recuperato due gol, mancano dieci minuti alla fine. Guardano lui. E lui sorride, teso, ma sorride. E annuisce. Gli altri si tranquillizzano. E solo tre minuti dopo è vittoria.

    Questo era Diego. Questo non sarà mai Messi.

     

     

     

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