"La tessera del tifoso te la fai te". Una polemica mai sopita

Ormai è sempre più difficile andare allo stadio senza quella card. Eppure c'è chi non vuole sottoscriverla. Per principio. Ma attenzione, non è un ultras
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    di Alessio Capone

    La stagione conclusasi poco meno di un mese fa è stata una stagione storica per me. Una stagione che ricorderò come il campionato in cui ho visto più partite del Napoli allo stadio: la consueta e quest'anno storica Milano (di sponda rossonera), Genova (per un gemellaggio che mi tranquillizzava), una Bologna piovosa, la Torino granata che mi ha fatto godere e, infine, la mia prima e indimenticabile al San Paolo.

    Anni fa assistetti ad un Inter - Napoli (due a uno per loro con gol di Lavezzi a scaldarmi il cuore) caratterizzato da un pre partita in cui l'intera curva dell'Inter, ad un certo punto, si voltò verso il nostro anello - il secondo arancio - per qualche istante. Chi, come me, si trovava dalla parte opposta rispetto alla suddetta curva, all'inizio non capì il motivo di quell'attenzione rivolta da un'intera gradinata verso un punto preciso dello stadio. Bastarono pochi minuti. Una ventina di ultrà interisti scavalcò le barriere che separavano il loro settore dal nostro e attraversò tutto l'anello, fino ad arrivare al misero spicchio di tifosi azzurri che si trovava vicino a me. Misero, perché la trasferta era stata vietata e il settore ospiti venne chiuso per volontà del fantasmagorico Osservatorio, in quell'occasione. Se le erano promesse, credo. E si incontrarono dentro. Gli ultrà interisti ebbero il tempo di scavalcare e percorrere centinaia di metri per attraversare lo stadio, quasi da curva a curva, senza che i famigerati steward intervenissero. Probabilmente quest'ultimi vennero mandati dallo stesso leggendario Osservatorio e, giustamente, osservarono quella passeggiata di una scolaresca a castagne. Per fortuna non successe nulla di grave, i "little" steward intervennero poco prima che il contatto tra scolaretti avvenisse, ricacciando gli scolari invasori nella loro aula. Io ora ve lo racconto scherzando, ma ci furono degli autentici minuti di tensione. Non mi dimenticherò mai quelle facce, quegli occhi persi nel nulla e quel modo di fare arrogante, da padroni dell'impianto sportivo. E non mi dimenticherò mai quel bimbo con la sciarpa neroazzurra dietro di me che esclamò: "Papà, io ho paura. Voglio andare a casa". Quel bambino ebbe paura dei suoi stessi "tifosi", quella sera, e io ebbi paura insieme a lui. Dopo quella partita la mia presenza allo stadio cominciò a rasentare lo zero. Anche a San Siro, stadio assolutamente civile e che ha sempre permesso a noi napoletani di esprimere gioia e qualche volta anche qualcosa di più. Ma quelle facce. Quelle facce a piede libero furono sufficienti a scoraggiarmi al punto da evitare lo stadio.

    Fino a quest'anno, appunto. I nuovi amici napoletani, in particolare Roberto Bratti e Alessandro Coraggio - membro attivo del Napoli Club Milano - e la gioia della trasferta in pullman, tra cori, casatielli, birre e scorta della polizia che ci ha sempre portato fin sotto la curva ospite in condizioni di discreta sicurezza, mi hanno convinto a seguire nuovamente la mia squadra allo stadio, come quando ero adolescente e mio padre mi portava in giro per il nord a tifare Zola, Turrini, Pecchia e gli altri miei eroi degli anni 90. Perché andare allo stadio è bello, in teoria. I riti, le discussioni, la condivisione di abbracci e braccia che si attorcigliano dopo un gol. L'attesa e la frenesia nella settimana antecedente, prima di acquistare il biglietto, prima di sapere se ci saranno tagliandi disponibili, prima di sapere se ci vorrà la tessera. Ecco, la tessera. Io, ovviamente, non l'ho mai avuta; ho cambiato idea repentinamente, non avrei mai pensato di assistere a così tante partite in una sola stagione e dunque non avrei mai pensato di averne bisogno. Povero Alessandro, mi ha sopportato per tutta la stagione, fino alla finale di Coppa Italia, quando ha sbottato: "Alessio, per l'anno prossimo ti devi fare questa benedetta tessera!". Come dargli torto? Il problema ero sempre io, l'unico non tesserato, l'unico a non essere andato a Roma per la finale. La tessera è necessaria, perché andare allo stadio è bello, in teoria. Stavo per cedere, nonostante la mia lettera a Maroni contro la tessera stessa.

    Ma quella teoria si è sgretolata completamente davanti ai miei occhi, proprio in quella maledetta sera di maggio, durante quella follia che si è consumata nelle ore precedenti alla finale. Fatti che non ho voglia e non credo serva rivivere in questa sede. Fare la tessera vorrebbe dire avvalorare e condividere un sistema; sottoscrivere quella tessera significherebbe implicitamente dare credito, esprimere soddisfazione e giudicare positivamente uno schema legislativo e la conseguente applicazione. Quello stesso sistema che nella notte di violenza romana ha abbandonato tutti: i suoi funzionari (poliziotti lanciati allo sbaraglio) e i suoi cittadini (chi è andato ha raccontato di bambini e ragazze in lacrime, nel migliore dei casi). "Io non mi tessero, io non mi omologo" cantavano gli ultrà napoletani qualche anno fa e oggi lo voglio cantare anche io, ma non nel senso che intendono loro, no. Io non mi omologo a quel sistema che ha fatto acqua da tutte le parti, a quel sistema che mi obbliga a tesserarmi e poi fa entrare la qualunque allo stadio, che mi perquisisce e mi sequestra accendini e poi fa entrare bombe e soliti noti. No, io non ci sto. Pagare quella tessera, firmarla vorrebbe dire acconsentire a proseguire così, vorrebbe dire chiudere un occhio e andare avanti, vorrebbe dire esprimere implicitamente parere positivo sull'operato di un sistema prima (capire come acquistare i biglietti è sempre un dilemma) e durante la partita.

    "La tessera del tifoso fattela tu."

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