Argentina-Germania, nel nome di Diego

L'incrocio di stasera è legato a doppio filo all'epopea del più grande di tutti i tempi.
  • di Boris Sollazzo tratto da "Il Garantista"

    “Non sarà mai una partita normale”. Parafrasando se stesso, Diego Armando Maradona, così forse commenterà sulla venezuelana Telesur la finale del mondiale. Perché per lui quello con i tedeschi non è un match qualunque, per lui la Germania è sempre stata la linea d'ombra oltre la quale non si poteva tornare indietro.

    La sua carriera, la sua vita, la percezione che noi tutti abbiamo avuto del dio del calcio è cambiata dopo ogni partita contro quell'armata fatta di grinta e granito. Di loro Gary Lineker, che prese a Diego lo scettro di capocannoniere nel mundial messicano, dice sempre: “il calcio è quel gioco che si gioca undici contro undici, e poi vince la Germania”.

    E' il 29 giugno del 1986: Diego Armando Maradona ha scherzato Giovanni Galli nel girone iniziale, con un gol in cui il portiere ammette “l'errore di averlo considerato un giocatore normale, non divino”, poi ha giocato per la squadra. Negli ottavi contro l'Uruguay lascia persino spazio a Pasculli, unico vero centravanti dell'Albiceleste, perché bastava El Pibe lì davanti. 
    Da lì in poi, è lo show del migliore. Al contrario di Lionel Messi, scomparso dopo gli ottavi, lui uscì fuori quando serviva. Due doppiette, contro Inghilterra (il gol di mano e il gol più bello del mondo) e contro il Belgio, in una dozzina di minuti. Quarti e semifinale li vince da solo. Tanto che Beckenbauer prende Matthaus, in finale, e gli dice di marcarlo a uomo. Lothar sembra Gentile: anche dopo l'ammonizione al 20imo, non smette di randellare, anticipare, soffocare Maradona. Uno scontro fra titani. Lo fa così bene che, però, la sua squadra perde il suo punto di riferimento e si fa infilare dal gregario Brown e dall'astuto Valdano. Sembra fatta. Ma i tedeschi in soli sei minuti, a un quarto d'ora dalla fine, pareggiano: il solito Rummenigge e Rudi Voeller, subentrato nel secondo tempo, pareggiano. Sembra una tragedia, ma serviva solo a ricordare a tutti che Diego quella coppa doveva vincerla da solo. Si libera, appena tre minuti dopo, arretrando e giocando con il pallone sulla sua trequarti. Lancio lungo, perfetto e poetico, contropiede: Burruchaga, che un po' gli somiglia, è una saetta, Valdano molto meno. E quel giocatore di quantità infila la sua più importante giocata di qualità: diagonale e rete. Diego, poi, l'anno dopo vincerà anche un campionato italiano da solo, ma questa è un'altra storia. Da quel giorno di giugno nessuno che sia in buona fede ha dubbi su chi sia il più grande della storia del calcio.

    Quattro anni dopo Dieguito è stanco. Di Napoli, dell'Italia, forse anche di un vizio che ne consuma affetti e fisico. Ma la sua Nazionale è amore puro: si rimette in forma e la porta in finale. Senza segnare neanche un gol, se non il rigore a supplementari finiti contro l'Italia in semifinale. Ma basta l'assist a Caniggia contro il Brasile agli ottavi perché nasca il coro Décime qué se siente (dopo Brasile-Germania trasformata in... qué se siete) dei suoi tifosi. Canto diventato, proprio qui in Brasile, l'inno della cavalcata di Messi e compagni. La finale sarà scippata dai tedeschi con un rigore ridicolo e lì si consumerà lo strappo con l'Italia: ai vergognosi, incivili fischi all'inno argentino, infatti, il capitano con gli occhi lucidi rispose “hijos de puta”. In diretta mondiale. Forte e chiaro. Una reazione comprensibile, patriottica, politicamente scorretta ma giusta.
    Cara gli costò: l'antidoping italiano si svegliò dopo appena sette anni e trovo tracce di cocaina nella sua urina: arrivò la squalifica e la fuga da Napoli. Da allora, non tornò più il campionissimo che conoscevamo. Ancora una volta la Germania aveva dato una svolta decisiva alla sua vita e alla sua carriera.

    Come quattro anni fa. Questa volta Diego è in panchina: motivatore straordinario, allenatore coraggioso, pur se tatticamente imprudente. Fa giocare insieme Messi, Tevez, Di Maria e Higuain. Se ne giovano tutti della sua audacia, tranne la Pulce, che però Maradona sostiene senza se e senza ma. Mascherano - “chi gioca?- diceva in quell'estate – Javier e altri dieci” -, era il suo uomo ovunque, il suo alfiere e faceva da cerniera tra i reparti. Colonna a tutto campo se lo inventò lui, “rubando” l'idea a Benitez. Ai quarti di finale arrivò con un carico di esultanze selvagge, frasi da film e un gruppo che lo adorava. Sembrava che la coppa dovesse essere sua, che quella Fifa che gli aveva tolto tutto, nel 1994 con una squalifica ridicola, dovesse inchinarsi finalmente al re. Non fu così: si sa, i tedeschi non amano essere le vittime sacrificali dei sogni altrui. Preferiscono diventare il loro incubo: 0-4. Löw in panchina non sbagliò una mossa, Klose in campo ne fece due, Romero sbagliò tutto o quasi. E la carriera di allenatore del Pibe morì lì, nel momento più alto. Ancora i tedeschi a indicargli la strada.

    Ora, da commentatore, consiglia Sabella, di estrema sinistra come lui, compagno ma non amico: non riesce a stargli simpatico Alejandro, forse a causa del sodalizio ventennale con il “nemico” Passarella. Ma in campo ci sono almeno tre dei suoi carnefici e qualcuno deve pur vendicarlo. Diego: lui, anche se dalla tribuna stampa, deve pareggiare i conti. E aprire, magari, un altro capitolo della sua vita.

    tratto da "Il Garantista"

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