Perché la camorra c’entra eccome con il caso Nocera. E non solo con quello

Non è una questione di infiltrazioni dirette ma di egemonia culturale: il linguaggio e il codice dei clan si impongono nelle curve di Napoli e dintorni. Non è un reato, ma un’apocalisse antropologica
  • di Errico Novi

    Qualche anno fa preparai uno speciale sui rapporti tra ultras del Napoli e camorra per un piccolo grande giornale che si chiamava Napoli Metropoli. Uno degli articoli era intitolato: «“Nessun rapporto con la camorra, siamo ultras”: la Masseria Cardone respinge le accuse». Sono ancora convinto che sia così: tra tifo militante e clan non esiste un rapporto organico, operativo. C’è un pentito di camorra, Emiliano Zapata Misso, che ha testimoniato il contrario nel corso del processo per gli scontri del 2008 davanti alla discarica di Pianura. Ma le sue dichiarazioni non sono esaustive. Nel senso che non provano alcuno specifico rapporto di interesse tra le “direzioni strategiche” dei cartelli malavitosi e le azioni dei gruppi ultras. Quella testimonianza casomai attesta un rapporto di “contiguità territoriale” tra i boss e i ragazzi delle curve: molti di questi ultimi provengono da quartieri in cui il boss è la massima istituzione riconosciuta. Alcuni di loro hanno legami anche familiari con affiliati alle cosche, con uomini di spicco del narcotraffico. Ma questo per me non prova nulla. Se non una cosa.

    A Napoli e non solo la camorra è ormai un fattore culturale dominante. Cioè si impone non solo come unica forma di impresa in grado di creare “occupazione”, ma detta anche le forme del linguaggio e del comportamento. Di fatto anche chi non appartiene alle organizzazioni criminali ne asseconda spesso lo schema “valoriale”. Dei boss, dei guappi di quartiere (la parola “guappo” è molto più usata rispetto a “boss” da chi con questa gente è costretta a convivere) si è per esempio portati a imitare il concetto di onore: un concetto non più attinente al rispetto genericamente inteso, ma alla violenza fisica come sola forma di definizione dei rapporti di forza. Non c’è solo questo: dei boss predomina ormai anche una certa “grammatica dei sentimenti”. Lo provano i molti casi di neomelodici riconvertiti in cantori dell’“epos” criminale. E una certa tendenza, tra i giovani che provengono dalle aree con maggior tasso di presenza camorrista, a reprimere la libera espressione delle passioni. Poco spazio per il romanticismo, per l’entusiasmo vitalista: casomai un’estetica del lutto e della virile continenza. Tale gusto per il lugubre, il rifiuto per il “rosa” della vita, tornano per esempio nelle insegne dei bar aperti dai clan nei quartieri “bene” di Napoli: tende nere, rifiniture delle vetrine nere, sguardo dei baristi nero, cupo, minaccioso. E come potrebbe non essere così, in un ambiente in cui si conteggiano allo stesso frenetico ritmo gli introiti dello spaccio e i morti ammazzati?

    Qualche giorno fa in un articolo sul Napolista Roberto Procaccini ha definito la recente “hit” delle curve partenopee (“In un mondo che/ non cui vuole più/ canterò di più”) un “canto funebre”. Ecco, l’estetica in questione è la stessa delle tende dei bar del riciclaggio: siamo sempre sul registro luttuoso. Da anni gli ultras del Napoli esibiscono il loro rifiuto della gioiosa espressione dei sentimenti. Ai giocatori per esempio non si possono dedicare cori. Niente, nemmeno per sbaglio. Sarebbe troppo “affettuoso”: e lo slancio affettivo libero, aperto, solare confligge con l’estetica camorrista del lutto e della violenza. E qui siamo al punto: gli ultras del Napoli che hanno sposato tale estetica non sono camorristi. Semplicemente sono impregnati del modello sottoculturale imposto dalle dinamiche criminali. Perché? Perché nei quartieri da cui la maggior parte degli ultras proviene, la sottocultura camorrista è il modello culturale egemonico. Sottrarsi a quel modello non è possibile. Chi tentasse di mettere in discussione l’estetica e il codice della camorra passerebbe per mammoletta, per uomo da trenta lire. Quel modo di ragionare si assimila ogni giorno. Perché in quei quartieri il clan domina, culturalmente, anche nei confronti di chi non fa parte dell'organizzazione.

    Questa estetica dell’onore intesa come perenne, e lugubre, dimostrazione di forza spiega anche i fatti di Nocera. Era davvero necessario esprimere la rabbia per lo stop alla trasferta di Salerno addirittura con il blocco della partita? Nelle ricostruzioni molto ben fatte proposte da alcuni giornali (vedi l’articolo di Alessio Fanuzzi sul Mattino del 13 novembre) si riferisce un particolare non da poco. Nel fatidico incontro di venerdì scorso tra squadra e ultras della Nocerina, allenatore e giocatori avrebbero offerto la seguente forma di adesione alla protesta: tutti fermi e seduti per un quarto d’ora davanti al settore dell’Arechi normalmente riservato agli ospiti. Alcuni capitifosi avrebbero accettato. Ma i più “duri” hanno detto di no, e hanno ribadito l’unica soluzione possibile: non giocare e basta. Cosa succede? Che i duri di strada, i duri modellati sulla durezza dei boss, non cedono mai. Sono sempre per la soluzione più estrema. Non possono cedere perché l’estetica della sottocultura criminale questo impone. I cento rincoglioniti che hanno assediato il residence della Nocerina domenica scorsa obbediscono a questa logica. Alla durezza portata alle estreme conseguenze. Probabilmente nessuno di loro è un camorrista. Ma tutti aderiscono all'estetica di comportamento affermata dalla camorra. Quando riusciremo a misurare il disatro antropologico portato a Napoli e dintorni dai nuovi codici della società criminale, sarà irrimediabilmente troppo tardi.

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