In quelle sfumature c'è tutta la vita: ecco perché la magia del calcio fa bene al cervello

Possiamo mettere le partite sullo stesso piano dell'intrattenimento spazzatura, dei reality? Mai. Perché nient'altro è metafora dell'esistenza come quei 90 minuti
  • di Dario Bevilacqua

    Esiste una gerarchia dell’intrattenimento? Possiamo distinguere l’intrattenimento di livello elevato da quello basso o non si dovrebbero fare differenze?

    È più dignitoso, politicamente corretto, o anche solo utile al proprio benessere, passare due ore libere guardando un buon film o una puntata di un reality show? E cosa è preferibile: dedicare del tempo a uno spettacolo teatrale o a un varietà grossolano? È ugualmente arricchente spendere mezz’ora del proprio tempo libero guardando una telenovela o leggendo un libro?

    Spesso si discute di questi temi, di solito con due opposte fazioni (e qualcuno che sta nel mezzo): da un lato, i puristi, che accettano solo l’intrattenimento di qualità (anche se il limite sotto cui non si può andare lo scelgono da soli, più o meno arbitrariamente); dall’altro, i faciloni, che, in nome del “mi diverte” e del “ma fa ridere!”, giustificano qualsiasi forma di intrattenimento, anche se questo costa loro neuroni e pure una certa cosa che tende a diventare sempre più preziosa, il tempo libero.

    Certo è difficile individuare criteri oggettivi per stabilire cosa sia divertimento giustificato e cosa sia perdita di tempo esecrabile. Anzi, è impossibile. Certo però, a mo’ di gioco e senza la pretesa si essere troppo seri, alcune categorie possono essere individuate, facendo un po’ il verso al “destra e sinistra” di Gaber…

    Allora: il reality è perdita di tempo, mentre leggere un libro arricchisce; la telenovela è becera, mentre la serie statunitense è intrattenimento di qualità; lo sceneggiato o la fiction nostrana sono da evitare, mentre il cinema – purché non si tratti di cinepanettone – è tempo libero ben speso. Si potrebbe continuare. A lungo e senza molto costrutto. Ma c’è una categoria dubbiosa, difficile da analizzare.

    Come ci poniamo di fronte al calcio? Dove lo si colloca? Alcune persone, di solito appartenenti al genere femminile, quando sono attaccate sulla loro passione per telenovele e soap operas, rispondono, piccate: e allora tu con le partite?

    Ma il calcio è intrattenimento becero? È basso e superficiale quanto un reality show? Naturalmente si parla di calcio fruito come intrattenimento, non solo (ma un po’ sì) del calcio vissuto come passione o come tifo.

    Certo, da tifoso e appassionato lo devo ammettere, la poesia di una volta ora non c’è più: Beckembauer che gioca con la spalla fasciata; le telecronache sobrie ed eleganti; “90° minuto”; Helenio Herrera e Niels Liedolm; le radiocronache di “Tutto il calcio minuto per minuto”; Italia-Germania 4-3; le follie di George Best; i replay delle giocate di Maradona o Platini; le partite tutte allo stesso orario; le canzoni di De Gregori. Tutte queste cose si sono un po’ perse. Sono annacquate, spettacolarizzate, moltiplicate all’ennesima potenza. Il calcio è diventato business, è uno show, che impone di stare davanti alla tv, anche cinque giorni a settimana. Come recitava uno spot, di qualche anno fa: mangia calcio, bevi calcio, respira calcio. Indovinato. Ma un po’ inquietante.

    Eppure. Eppure no. C’è ancora qualcosa. Ancora qualcosa da salvare.

    Perché il calcio, a differenza delle fiction – ma anche dei reality show –, è sempre diverso. Sempre imprevedibile, sempre emozionante, mai banale e sempre pieno di sottotesti, di non detti, di vissuti e di metafore della vita. Perché ha una quantità di regole complicate e di variabili tattiche infinite. Perché non riusciremo mai a capire se conta di più l’allenatore o un’ottima squadra, se è meglio il collettivo o i singoli talentuosi. Perché cercare di pronosticare un risultato di uno sport aperto a mille variabili è come cercare di anticipare quel che ti capiterà nella vita. Perché grazie al calcio in Italia ci sono circa 65 milioni di commissari tecnici, il che è una bella soluzione in tempi di disoccupazione e crisi economica. Perché, anche quando stai guardando un miliardario in mutande pieno di adrenalina, quel suo tocco magico, quell’invenzione, quell’idea inaspettata o quel gesto atletico di grande forza riescono ancora a toglierti il fiato. O a farti urlare di gioia. O, altre volte, di rabbia.

    Insomma, al di là di tutto, ne vale ancora la pena. Di dedicare il proprio tempo a guardare quei ventidue viziati strapagati che inseguono una sfera di cuoio. Vale la pena di dare sfogo alla propria passione calcistica, che ha ancora una sua dignità “alta”. Anche quando è vista come intrattenimento. E ce l’ha anche e soprattutto grazie al calore dei tifosi. Perché alla fine è lì che si finisce: il gusto per il gioco, prendere una posizione eleggendo una squadra del cuore, ipotizzare un pronostico, far levitare le aspettative e le paure, e poi mettersi lì, a guardare, a soffrire, a sperare e poi a esultare. No, il calcio ha più dignità dell’intrattenimento spazzatura. È passare il tempo in modo elevato. È impiegare il proprio tempo libero in maniera sana, emozionante, arricchente. Al di là di tutto.

    E quindi avvicinatevi al pallone e non snobbatelo. E per i più altezzosi e diffidenti: sappiate che potete farlo anche leggendo. Grazie agli ottimi manualetti del tifo editi da Fandango Libri. Tra i quali spicca senz’altro quello dedicato al Napoli, “#chevisietepersi”, di Boris Sollazzo, che con leggerezza e maestria nobilita una passione insana e logorante, ma anche calorosa e piena di sfumature, come quella per il gioco più bello del mondo.

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